domenica 7 dicembre 2014

20.000 Days On Earth


20.000 DAYS ON EARTH (2014)





Regista: Iain Forsyth, Jane Pollard

Attori: Nick Cave, Susie Bick, Warren Ellis

Paese:
UK


E il settimo giorno, si riposò. Nick Cave invece, nel 20000esimo della sua esitenza, fa un documentario. Su se stesso. Su fittizie 24 ore della sua vita. Una sorta di autobiografia costrutita però su pochi ricordi e tanti pensieri sparsi.
Personalmente l'autobiografia come strumento, se affiancato ad un'artista, tende già di suo a mettermi lievemente a disagio; denota una vanità fuori dal comune, una ostentazione che è negativa per definizione. La stortura sta nell'arroganza di credere di essere interessanti. Un conto è scrivere musica, un conto è provare a scrivere una sceneggiatura piuttosto che un libro, un conto è scrivere un documentario su se stessi. O meglio, un conto è scrivere un documentario su se stessi con le stesse premesse e per le stesse motivazioni alla base di 20.000 Days on Earth. Quest'ultimo, infatti, non ha le sembianze di, non so, un'opera catartica a livello personale, o uno sfogo, né si avverte la necessità di comunicare qualcosa liberandosene attraverso la narrazione. Né sembra essere un documentario classico, che punti magari a svelare retroscena della vita artistica di Nick Cave, motivazioni alla base di un testo specifico piuttosto che di un altro, tasselli che completino il mosaico artistico della carriera del cantante. 20.000 Day on Earth non somiglia nemmeno al più classico dei documentari, basati principalmente su un susseguirsi di brani, rivisitati o meno, tra aneddoti ed esternazioni dell'artista (come il meraviglioso "I'm Your Man" su Leonard Cohen, per intenderci. In cui peraltro c'è anche Nick Cave). La sceneggiatura di quest'opera co-scritta dal cantautore non ha forma, è un po' di tutto e alla fine non è nulla. E il problema, sia chiaro, non è il non avere forma, è che l'informità proposta non ha volume, non ha sostanza, non trasmette, non ha sapore.


Lo stesso Cave ammette durante la pellicola la sua vanità, ricordando che da giovane scrisse un testamento in cui lasciava tutto alla costruzione del Nick Cave Memorial Museum. Va bene, un plauso all'onestà, ma ammettere di essere vanitoso non cancella il problema, tutt'al più lo evidenzia in maniera ulteriore. E nel documentario di cui si scrive la vanità è realmente ingombrante. Tende ad irritare fin da subito, da quando l'artista dice qualcosa tipo "volete sapere come si fa a scrivere un testo?". "Ma anche no", potrebbe rispondere lo spettatore. Il fastidio è proprio lì, nella forma, nel credere che lo spettatore stia pendendo dalle tue labbra, nel dare per scontato che voglia sentire la risposta ad una domanda che tu stesso hai posto e che non ha posto lo spettatore o chi per lui. Segue una risposta più o meno simpatica, anch'essa però palesemente frutto di ostentazione, perché viziata alla base.
Non a caso tutta la restante parte della sceneggiatura tende a trasmettere lo stesso senso di disagio misto a fastidio. Non si avverte una reale genuinità nell'opera, neanche lontanamente. Al contrario il posticcio è sempre dietro l'angolo e proprio questa mancanza di naturalezza nel raccontare e nel raccontarsi fredda l'empatia come solo un cecchino riuscirebbe a fare. Non si riesce a capire dove voglia andare a parare, davvero, è tutto olimpionicamente sconnesso. E quando, inoltre, ci si rende conto di ciò e si cerca di mettersi in un'ottica diversa, per cercare di entrare in sintonia con quanto accade sullo schermo - quando si cerca, nello specifico, di assorbire le riflessioni e i mood del cantante senza aspettarsi alcuna logica narrativa - ancora una volta si resta delusi: le riflessioni proposte non sono così illuminanti, non sono così sentite, non sono interessanti; i dialoghi sembrano troppo costruiti e pretenziosi pur non avendo particolare spessore.


Gli unici momenti in cui qualcosa si smuove all'interno durante la visione sono quelli in cui canta, o in cui si alternano esibizioni live. Momenti in cui quella fotografia classica da documentario entra in simbiosi con il resto e distribuisce dosi standard di empatia, utili ad andare avanti nella visione. A venir fuori sempre più prepotentemente, fotogramma dopo fotogramma, dialogo dopo dialogo, è l'idea, al termine ampiamente confermata, che Nick Cave non abbia assolutamente nulla da dire in questa forma. Come cantautore sì, è una meraviglia, come sceneggiatore anche si è reso interessante ("The Proposition"), ma non a caso sono due linguaggi del tutto differenti da quello scelto ora, perché figli della finzione; finzione in cui evidentemente sa muoversi, e anche bene. Quando si tratta di Nick Cave persona prima che artista, invece, come nel caso di 20.000 Days on Earth, a quanto pare non ha molto da raccontare. O più semplicemente non sa come farlo, ma al di là dei perché e dei percome il risultato resta comunque identico.


Lasciamo che i documentari li facciano altri su di voi, magari, ché a venirne fuori sono sincerità ed coinvolgimento, e se proprio sentite il bisogno di scrivere su voi stessi, che almeno abbiate la cortesia di farlo con una motivazione diversa dall'ostentazione di cui sopra.


mercoledì 26 novembre 2014

Z-Nation e gli zombi di serie B


Z-NATION (2014)





Ideatore: Karl Schaefer

AttoriKellita Smith, DJ Qualls, Keith Allan

Paese:
USA


Vale la pena scrivere due parole su Z-Nation, dai. Foss'anche solo per il fatto che dietro la stessa ci sia L'Asylum, studio cinematografico padre, tra i mille b-movie proposti che si rifanno ai grandi titoli mainstream, di una roba che si chiama Sharknado e che parla esattamente di ciò a cui state pensando. Personalmente ancora non ho avuto il coraggio di vederlo, ma di sicuro lo farò, perché un tornado di squali va visto punto e basta, dovesse anche essere il livello più basso mai raggiunto dalla settima arte. Del resto Sharknado vanta pure una citazione. E proprio, niente meno, che in Z-Nation.


Trasmessa dalla Syfy, la serie, mettiamolo subito in chiaro, è un po' una stronzata, ma chiunque si aspettasse il contrario avrebbe dovuto riflettere prima sui settaggi delle proprie aspettative valutando le variabili in gioco. Non si tesseranno pertanto, in questa sede, le lodi di un prodotto che dato il livello generale raggiunto dal mezzo televisivo riesce a strappare a fatica la sufficienza. Ciò che si farà, però, sarà mettere in luce gli aspetti vincenti di una proposta che se non altro è cosciente del suo non avere alcuna pretesa. Anzi, in tutta onestà, di una proposta che mette in luce tutte le debolezze della serie mainstream a cui fa riferimento. Come molte delle robe scritte dall'Asylum, infatti, anche Z-Nation guarda ad uno dei prodotti che più ha spopolato negli ultimi anni, e che si dà il caso sia anche uno dei più brutti che si ricordi. Si sta parlando, ovviamente, di The Walking Dead.
Come suggerisce il titolo, anche Z-Nation segue il filone zombiano-post-apocalittico-surviving- viadiscorrendo, ma lo fa con un budget infinatamente minore: qualcosa come 700.000$ contro i 2.500.000$ a puntata di TWD (in realtà il costo della singola puntata della prima stagione si aggirava intorno ai 3.4 milioni). Ora, è chiaro che siano prodotti diversi, e in termini di fattura e in termini di intenzioni, tuttavia il problema è che Z-Nation con la sua coglionaggine (mi si passi il termine tecnico) è molto più divertente di TWD. E non si sta parlando di divertimento in senso stretto, dato che il primo è caciarone e leggero e il secondo punta a serietà ed esistenzialismo, ma di divertimento inteso come coinvolgimento e fruibilità; come, al solito, piacere di andare avanti. In quattro stagioni TWD, lo si è ripetuto allo sfinimento in questo stesso blog, annoia fino alla depressione mostrando una sceneggiatura scritta con i piedi, salvo barlumi di qualità sparsi a caso, e rende il tutto ancor più indigesto a causa di una pretenziosità che dopo più stagioni veramente scarse diviene finanche fastidiosa. Z-Nation, al contrario, non ha pretese nemmeno a pagarle, si presenta al mondo televisivo con un carico non indifferente di sciocchezze e si rende più interessante di una roba su cui si continua a spendere l'impossibile, manco fosse una sorta di accanimento terapeutico 2.0.


A Z-Nation non importa nulla di rispettare un qualche standard. Diciamo anche che a Z-Nation e all'Asylum non importa nulla in generale. All'inizio di ogni puntata dovrebbe comparire qualcosa tipo "Kill your own brain. No Mercy", giusto per evitare che qualche genio si predisponga con occhio critico alla visione. E' il classico b-movie senza pretese, con dialoghi dallo spessore volutamente nullo, dall'approfondimento farlocco e dalla struttura in polistirolo. Ah, e anche dalla colorazione livida figlia di un qualche programma di video-editing scaricato e craccato.
E però funziona. Convince ad andare avanti con la visione. Di certo è molto più godibile di TWD, ha parentesi spassose, ha ritmo, azione e ogni tanto nelle puntate si ritrovano elementi tipici del genere, tipo cannibali e sette capitanate da gente impazzita ma, cosa assai importante, senza mai tediare. Nel senso, son scenari da una botta e via, durano giusto il tempo della puntata. E poi c'è il tornado di zombi: non stavo scherzando prima, c'è davvero un tornando di zombi. Sì, proprio così. E un tornado di zombi è bellissimo, siamo sinceri.

Ha dei cali, la nuova creatura dell'Asylum, solo quando guarda caso prova a tessere sottotrame introspettive (anche se lo fa comunque in modo idiota), ma è una situazione fortunatamente più unica che rara. Anzi, quando accade sembra rendersene conto e torna subito sui livelli ignoranti che la contraddistinguono.


E' un baraccone alla fine, sì, non è paragonabile ad una serie come TWD che punta allo spessore perché obiettivi, premesse e coefficiente di difficoltà sono differenti, però se dopo 4 anni e un mare di soldi non hai combinato nulla di buono, viene un branco di scalmanati e con 1/10 dei tuoi soldi e una sola stagione all'attivo (invero nemmeno conclusasi, ancora) si rende più interessante di te, beh forse prenderti un po' per il culo è anche giusto, non credi? Con affetto. 


venerdì 14 novembre 2014

Interstellar e l'onda del secolo.


INTERSTELLAR (2014)





Regia: Christopher Nolan

Attori:
Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain
 

Paese: USA/UK


Non è il mistero di ciò che c'è oltre. Non è il mistero dei buchi neri e di galassie lontane, né dei viaggi oltre lo spazio con tanto di sovrapposizioni temporali. Non è nemmeno il mistero della vita e della forza di un sentimento a muovere l'ultima fatica di Nolan. A muovere "Interstellar" e a renderlo interessante, in realtà, è il mistero di un autore che è passato da sceneggiature granitiche, inattaccabili, emozionanti proprio perché potenti a sceneggiaturine che a volte sembra vogliano competere con"Armageddon". A renderlo interessante, invero, è pure quella maledettittissima onda, epica, gigante e bellissima... ma di questo parleremo poi. Ah, e anche il fighissimo viaggio nel buco nero, ma pure di questo parleremo poi.

 

Quel che è importante, qui, è uno degli scenari più fastidiosi per noi fruitori. Gente che va al cinema per godere come se non ci fosse un domani, lasciandosi andare a storie dalle quali ci si fa coivolgere fino al punto di mettere in dubbio la propria sanità mentale, con buona pace della nostra coscienza. Ci si riferisce al trovarsi davanti ad un'opera enorme in potenza, all'appassionarsi ad essa senza freni, al fidarsi del prosieguo, solo per ritrovarsi, poi, a fare i conti con promesse non mantenute, con un cambio radicale e poco coerente, con un "ferma, dove credevi di andare?" rivolto all'empatia che manco un calcio nelle palle. Per quello poi si insiste con la critica, non per hobby, ma solo per essere stati sedotti e abbandonati, come nella più classica delle storie.
Sì, perché io per primo, in tutta sincerità, fino al pianeta Miller mi stavo convincendo del capolavoro, o quasi. E' vero, delle scelte un po' discutibili ci sono già nella parte iniziale, tipo questo che prende e parte, stile "oh stiamo andando Las Vegas, vieni? Sì, però guidi tu", ma niente di che alla fine dei conti. O meglio, niente di che se alla fine quei conti tornano. Il problema si ha quando non tornano o quando sono così sempliciotti che 2 + 2 al confronto sembra un'equazione di secondo grado con due variabili. Tuttavia, si scriveva, nonostante qualche sciocchezza per metà il film funziona, e funziona anche bene. Riesce a ricreare una dimensione tutta sua, che è forse tra le cose più difficili quando si parla di settima arte e più in generale di storie. Una di quelle dimensioni in cui, come scritto poco sopra, ci si abbandona volentieri, si avverte anzi la necessità di entrarci mettendo da parte la realtà. Punta all'epicità e getta le basi per raggiungerla, usa le variabili giuste fino ad innalzare su quelle basi anche la struttura portante e, diciamocelo chiaramente, quando questi si avvicinano al buco nero immersi nello spazio, a un passo dall'ignoto, sapendo che di lì a qualche attimo lo attraverseranno, la sedia durante la visione è già abbondantemente diventata una postazione nella navicella, lì affianco ai protagonisti. Ti ritrovi a guardarti intorno per capire quali tasti spingere e quali manovre effettuare per gestire l'imminente viaggio spazio-temporale.
E poi, ancora, quando ci si ritrova su Miller e Rust (no, ha un nome diverso in questo film, chiedo scusa) guardando all'orizzonte dice "non sono montagne, quella è un'onda" la realtà è già stata doppiata quelle 15 volte. Stupenda quell'onda. Niente di che. Né robe strane, né soli o lune a valanga accanto al nuovo pianeta, né forme sconosciute. No, solo calma piatta, acqua a perdità d'occhio e un'onda fottutamente enorme. Cinema nel suo stato più puro. E visivamente e emotivamente. Il tutto su un pianeta in cui un'ora equivale a 7 anni sulla Terra, in una galassia sconosciuta; uno dei 12 pianeti, con altrettanti astronauti, che gli umani hanno deciso di esplorarare. A questo punto le premesse sono immense e nella prossima ora e mezza devi fare il botto, ti tocca; perché dall'altra parte dello schermo c'è gente che ormai è pronta a partire su una navicella subito dopo la fine del film; e perché altrimenti sarebbe come presentare il progetto di una macchina volante e restituire al termine una cinquecento con due ali montate sopra per decorazione.


E niente, a quanto pare la cinquecento con le ali ha la sua discreta schiera di fan. Tra cui anche Nolan. Da questo punto in avanti, infatti, si scende in picchiata, quasi la navicella che faceva surf sull'onda gigante di cui sopra fosse una metafora con cui si avvisava il povero, sedotto e abbandonato spettatore. Nuovo pianeta, cattivo di turno, navicella rubata e Mettiu supereroe che fa una mossa che manco in robe tipo Mazinga ricordo di aver mai visto. Tutti 'sti passaggi di sceneggiatura inutili che non c'entrano quasi nulla con il volto di una pellicola che fino a quel momento guardava verso l'infinito, verso il nuovo, che sfidava l'universo, che si specchiava in un viaggio enorme senza tempo e senza limiti. Mette da parte questi che erano gli aspetti più belli e vira bruscamente verso buono/cattivo/eroe e racconta una parentesi lontana anni luce dai livelli promessi fino a poco prima. Una parentesi dietro la quale si va poi a nascondere tutto il prosieguo messo in ballo, sì da non essere costretti a svilupparlo, chiudendo con un tuffo nel buco nero e una cameretta pentadimensionale al suo interno. Cioè mondi, galassie, tunnel spazio temporali, una roba sconfinata, e alla fine? lo stanzino dietro la cameretta della figlia? Eddai, però...
Non ho neanche voglia di parlare dei buchi di sceneggiatura, in realtà. In uno scenario come quello fantascientifico si perdonano (oddio, sempre fino a un certo punto). Qui ciò che non si può perdonare è la banalità della risoluzione, quello sventolare davanti ad un bambino un nuovo videogioco e poi dirgli che all'interno della scatola in realtà c'è sempre quel cazzo di Tetris dimmerda. O al massimo Snake. Maledizione.

Non parlo da critico, perché non lo sono. Infatti non mi va nemmeno di parlare di fotografia, regia e interpretazioni, belle o brutte che siano. Il danno qui è la storia raccontata, è sempre lei. Che sia un libro, un film, una serie, un racconto breve, è la storia il fulcro di tutto. Se poi la racconti anche bene vinci tutto. Ma se la storia fa cagare, signori, fa cagare. E, figuriamoci, non si sta parlando di una delle premesse fondamentali, a mio avviso abbastanza priva di senso già di suo, ossia che gente del futuro piazzi un buco nero per salvare gente del passato così. Per la serie "dato che fra 10-20-30 anni muori, vieni da noi e finisci di morire qua". Che poi, per inciso, se il resto fosse stato valido me ne sarei anche fregato.


Comunque nulla, alla fine questo è chiaramente lo sfogo di un amante che era pronto ad impegnarsi in una storia d'amore e che poi scopre l'altra a scopacchiarsi il resto dell'umanità. Un amante di vecchia data, oltretutto, dato che dopo "The Following", "Memento" e soprattutto "The Prestige", Nolan godeva di tutta la mia stima. Ma tant'è, mortacci suoi. 


mercoledì 11 giugno 2014

Gomorra e la qualità possibile


GOMORRA - La serie (2014)




Ideatore: Roberto Saviano, Stefano Sollima

Attori:
Marco D'Amore, Fortunato Cerlino, Maria Pia Calzone, Salvatore Esposito, Marco Palvetti

Paese:
Italia



Fa specie anche solo scrivere "Italia" affianco a "Paese", a sinistra della locandina qui sopra. Ancor più se si sta parlando di una serie televisiva. Non era mai capitato, e non pensavo sarebbe successo nel breve termine, a dire il vero. A dire il vero non sono neanche questo forte ottimista, ma nel caso in specie credo ne avessi ben donde. Sperare, infatti, in un prodotto televisivo nostrano di qualità non è affato semplice quando, mentre oltreoceano sfornavano già 20 anni fa capolavori indiscussi ed oggi propongono robe enormi come "True Detective", mentre il Regno Unito si è ritagliata nel panorama delle serie degli stilemi tutti suoi, personali e riconoscibili, in Italia il massimo che potevamo registrare, ad oggi, era una serie, una, ed una sit-com, una. Ci si riferisce ovviamente a "Boris" (un mezzo miracolo... ma facciamo pure intero) e "Romanzo Criminale". Quest'ultima venne realizzata da Sollima, che guarda caso è lo stesso dietro la direzione della serie di cui si scrive, "Gomorra", ché non sia mai venga fuori qualcun altro a proporre prodotti di qualità. Probabilmente, infatti, morto Sollima l'Italia non vedrà più serie televisive degne di nota per decenni. Questo sempre per il forte ottimismo di cui sopra.


Inutile tuttavia lamentarsi troppo, godiamoci per ora un prodotto che finalmente mostra una qualità che non ha molto da invidiare ad altri, se non qualcosina. Poteva andare assai peggio. Avrebbe, "Gomorra", potuto avere Terrence Hill nel ruolo del prete di Scampìa, Manuela Arcuri nel ruolo della donna di un boss, e ovviamente Gabriel Garko nel ruolo di quest'ultimo. Ma la vera novità è che non solo poteva andare molto peggio, è che difficilmente poteva andare meglio. Laddove fosse successo, oggi in tutta probabilità saremmo stati qui ad inserire "Gomorra" tra le migliori serie televisive senza distinzioni di sorta tra Italia e altri paesi; come una delle migliori serie televisive e basta. Sì, perché il respiro narrativo, il volto della serie, la maturità nella costruzione hanno tutt'altri livelli rispetto a quelli visti in precedenza da queste parti. Lo stesso "Romanzo Criminale" deve un attimino ammettere la superiorità della nuova creatura di Sollima. Per certi versi, invero, non sarebbero nemmeno paragonabili essendo il primo fortemente romanzato e il secondo ben più realistico. Così realistico, anzi, che rischia inzialmente di esserlo troppo, minando coinvolgimento ed empatia. In realtà, però, è solo una sorta di introduzione, di lì a poco viene fuori anche la parte romanzata di "Gomorra", che a quel punto fa un cenno affettuoso e si mette in corsia di sorpasso.
Non che l'intreccio sia un capolavoro assurdo al punto di mettere in ombra quello di Romanzo Criminale, intendiamoci. A distanziare l'uno dall'altro, a conti fatti, è la messa in scena di quell'intreccio. "Gomorra" è potente, è maleodorante, fa male agli occhi e lascia un senso diffuso di nausea al termine di ogni puntata, roba che manco un foglietto illustrativo. E non è solo per l'ambiente che viene raccontato, è proprio una questione cinematografica, un'indiscussa riuscita del comparto tecnico. Nonostante regia e montaggio guardino più al realismo che alla finzione, la fotografia livida, pur essendo anch'essa realistica, restituisce da subito un'immagine e in generale un volto per l'appunto cinematografici. Aspetto quest'ultimo condito da un utilizzo delle musiche che segue lo stesso pattern. Il risultato d'insieme è una sorta di realismo finto, o finzione realistica, che si rivela essere il linguaggio perfetto per un prodotto come "Gomorra", che punta con forza sulla docu-denuncia non perdendo però mai di vista il racconto. Ed è questo il motivo per cui, si scriveva, la visione di "Gomorra" disturba. Quell'intreccio che spesso spinge lo spettatore a tifare per l'uno o per l'altro, a gioire della vincita di uno, o addirittura dell'aver tolto di mezzo un altro, in questo caso è più che mai immerso nella realtà, ed ogni paretensi, ogni frase, ogni morto ammazzato, fanno al contrario l'effetto che dovrebbero giustappunto fare, cioè discretamente schifo. Non si tiene per nessuno dei caratteri, forse una mezza parentesi in una singola puntata, prima che di quel personaggio vengano delineati i tratti più negativi; forse per Ciro, che dall'inizio sembra venir costruito proprio per essere quello per cui fare il tifo, ma al massimo fino alle puntate 9 e 10 (tra le migliori in assoluto), in cui anche lui entra a far parte della monnezza non più solo ufficiosamente. Si sgretola l'unico personaggio a cui, sempre e solo filmicamente, ci si poteva sentire più vicini; e non è un caso, la puntata sembra costruita, anzi, apposta per quello.
A questo punto non ci sono più eroi, né di fatto (non c'è mai neanche l'ombra di un personaggio positivo a contrasto con il resto) né filmici. Ciò che resta è solo il fetore di cui si parlava poco sopra, un tanfo ancor più insopportabile. Un virus così diffuso da essere la normalità, così diffuso che a conti fatti il virus è l'onestà, virus contro cui, però, la realtà raccontata sembra aver sviluppato un discreto esercito di anticorpi. Uno scenario in cui non solo non si ha voglia di vivere, ma nel quale non si ha nemmeno voglia di immedesimarsi, foss'anche solo per il tempo della visione. Si è felici che ci sia uno schermo tra ciò che è e ciò che si sta guardando, nonostante sia il racconto assai coinvolgente. Concetto quest'ultimo da ribadire ad oltranza, considerando che molti degli ultimi e più osannati prodotti stranieri non sono più così tanto in grado di rispondere a quella necessità tanto semplice quanto essenziale di voler semplicemente, più di ogni altra cosa, aver voglia di andare avanti con la storia, di aver voglia di vedere come va a finire. 



Si accennava, al tempo stesso, a qualcosina ancora da invidiare alle più riuscite, perché qualcosina effettivamente c'è, ed è giusto scriverne. Ogni tanto inciampa, la serie, anche se il più delle volte in maniera impercettibile. Spesso si è sul chi va là, come se la serie avesse le redini della narrazione ma sempre e solo fino ad un certo punto, come se potesse da un momento all'altro fare qualche cazzata. Ed infatti una bella grossa la fa. Ci si riferisce alla puntata in cui Genny torna in stile Rambo e impara in qualche giorno ad essere un boss, a muoversi tra trame politico-mafiose come niente fosse, dal babbeo che era. L'intera puntata è assai debole e rovina discretamente l'idillio narrazione-spettatore. Fa zoppicare vistosamente il realismo di cui si vanta la serie, e riguardando il tutto uno dei protagonisti, che resta quindi tra i tasseli principali, l'infelice scelta di sceneggiatura va ad inficiare per forza di cose anche il prosieguo che lo riguarda direttamente.
Stesso discorso per  la risoluzione finale, che cede un po' troppo il passo alla spettacolarità delle dinamiche, nonostante sia preceduto da un episodio, il penultimo, in assoluto tra i migliori dell'intera stagione (che ha dalla sua, peraltro, due scene meravigliose per costruzione e pathos). La differenza di maturità tra le due puntate è evidente, e la parentesi conclusiva risente sensibilmente del confronto.
Ciò detto, in ogni caso, gli aspetti negativi restano comunque confinati per ora ad un livello che fortunatamente non è alto a sufficienza per minare in maniera seria un prodotto di cui ci si può fare vanto.

A voler essere sinceri, ci si potrebbe lamentare pure di qualcos'altro. Della tendenza tutta nostra a far sempre riferimento alla denuncia, al restare ancorati a fatti reali, al non riuscire a costruire qualcosa che sia puramente di genere. La differenza tra la miriadi di prodotti stranieri e le serie italiane che si contano su poco più della metà delle dita di una mano è anche lì. Ma, di nuovo, forse non è il caso di ammorbare con quest'aspetto, proprio nel momento in cui il Paese ha tirato fuori forse il suo primo vero prodotto televisivo dal respiro internazionale. E poco male che sia l'ennesimo al quadrato sulla mafia, a questo punto, perché è vero anche che ha un aspetto assai personale, e che un racconto simile della realtà mafiosa qui probabilmente non si era mai visto. Può ricordare lontanamente altri prodotti, ma mantiene, vale la pena ripeterlo, una personalità tutta sua, cosa che già da sola, per la nostra tv, è un altro mezzo miracolo, diciamocelo.

Quindi nulla, questa volta stiamo tutti un po' zitti e limitiamoci ad applaudire, sì? Sì.

 


giovedì 29 maggio 2014

Maps To The Stars: let's talk about David


MAPS TO THE STARS (2014)





Regista: David Cronenberg

Attori: Robert Pattinson, Carrie Fisher, Julianne Moore, John Cusack, Mia Wasikowska

Paese:
Canada/USA


Un po' di gente con un po' di discrete ossessioni e un po' di traumi infantili alla base di quelle ossessioni. Il nuovo Crononberg, relativamente nuovo, che dalla violazione della carne come aspetto preponderante del suo cinema passa alla violazione della mente in maniera più ben più netta, rendendola non solo motore immobile ma assoluta protagonista.
Maps to the Stars è in questo senso emblematico, più che un film è un incubo che non risponde sempre alla logica, e che al contrario, ogni tanto, piazza qua e là robe in parte surreali, e sceneggiaturisticamente e visivamente. E' caricato ed esagerato, anche, sfiorando la parodia ma senza mai davvero assurmene i classici toni ironici, ché di fondo, si scriveva, resta un incubo. L'ultima fatica di Cronenberg, inoltre, è un po' un film del cazzo, diciamocelo.


Al di là degli entusiasmi di molti che si scagliano contro presunti critici che non capirebbero nulla, o presunti individui medi non in grado di apprezzare a fondo un'opera così profonda, così d'autore, così metaforica, la pellicola è palesemente debole, sotto vari aspetti, compreso il più importante, ossia quello filmico in senso stretto. Annoia, non riesce a fornire appigli a cui lo spettatore, seppur poco convinto, possa aggrapparsi per farsi trascinare nella visione. Perché è di Cronenberg che si sta parlando, non certo l'ultimo scemo, quindi gli si dà credito, anche se non particolarmente coinvolti. Ci si aggrapperebbe per partito preso, sulla fiducia. Peccato che il regista sia il primo a non fornirne (di appigli). Appare fin da subito un po' inconcludente e non si sa bene dove voglia andare a parare, non si sa bene su cosa concentrarsi esattamente. Ma potrebbe essere una scelta calcolata, perché il regista magari vuole scardinare i cliché, non proporre la solita linearità. Magari è proprio ciò che cerca, disorientare lo spettatore, non dargli troppi punti di riferimento per colpire solo più tardi. Probabile che nel prosieguo sia esattamente ciò che accadrà. Ma il problema con il "probabibile" è che l'evento non accada. E infatti non accade.
Così come inizialmente non si capisce bene dove il film voglia andare a parare, allo stesso modo non si capisce poi. Se voleva essere una critica allo show business, allora il film non si avvicina nemmeno all'affondo decisivo. Un po' di psicosi, un po' di pilloline, due gocce di Xanax. Ormai è una bibita seconda solo all'acqua lo Xanax, si sa perfettamente che ci sono parecchie storture, derive e debolezze, ce ne sono quante ne desideri e soprattutto sotto gli occhi di tutti, e se vuoi una critica feroce, al mondo Hollywoodiano nel caso in specie, non ci riesci con due stronzate su qualche psicofarmaco e un paio di grammi di cinismo tra prime donne sul set. Specie se qualcuno ci era riuscito egregiamente già una cinquantina di anni fa. Allora, forse, avrebbe avuto un certo effetto, ma oggi no, decisamente no. Ora come ora per fare una critica feroce non basta spiattellare determinate dinamiche, quotidinamente allo scoperto, sullo schermo, bisogna riempirle di pathos. Bisogna che arrivino. E che facciano male. Ma in Maps to the Stars non fa male in realtà nulla.
Voleva essere un viaggio nelle psicosi umane? Va bene, ma non c'è niente di nuovo, o che arrivi in maniera nuova. Intendiamoci, Cronenberg è sempre stato un regista abbastanza asettico nella messa in scena, ma tra alti e bassi riesce pur in quell'asepsi o proprio grazie a quella a ricreare un'atmosfera in grado di accogliere lo spettatore. Questa volta, però, pur avvertendola una certa dimensione, non si può non ammettere che è davvero poca roba, di certo non sufficiente a contrastare né tanto meno a giustificare la noia di cui sopra, che peraltro nel mentre continua ad aumentare.


E al termine il disegno del regista diviene lievemente più chiaro. E' un film nel film. E' la sceneggiatura di cui parla Agatha, su incesti vari conditi con un po' di mitologia. Aspetto, quest'ultimo, che va a posteriori a giustificare le scelte surreali di cui si scriveva inizialmente. E' lei che vive il film che dice di voler girare, nel film che sta raccontando lei che vuole girare il f... insomma un casino, su cui non è il caso di soffermarsi. Uno stratagemma con cui Cronenberg decide di mischiare le carte in tavola e disorientare. Ricorda Lynch in Mulholland Drive, lì però pur non capendo nulla alla prima visione, l'empatia non si quantificava. Qui invece si è disorientati, ma anche discretamente annoiati.

Un film nel film, quindi, quest'ultimo lungometraggio di Cronengerg. Un film che racconta un altro film. Un film che però oltre a raccontare un altro film contestualmente lo vive. Peccato solo che il film che il film racconta faccia un po' cagare, ecco.


lunedì 26 maggio 2014

Only Lovers Left Alive


ONLY LOVERS LEFT ALIVE (2013)




Regista: Jim Jarmush

Attori: Tilda Swinton, Tom Hiddleston, Mia Wasikowska, John Hurt


Paese: UK/Germania


Ambientazioni post rock, vampiri musicisti e Jim Jarmush. Difficile tenere basse le aspettative, diciamocelo. E dare un'occhiata al cast non aiuta affatto. Ma poco importa, quella delle aspettative è in realtà una questione di poco conto, e probabilmente neanche quello. Per quanto alte possano essere se un film è riuscito è riuscito e basta, e se ne resta affascinati durante la visione in un modo, comunque, mai del tutto prevedibile. Che è poi il motivo per cui non ci si stanca mai di assistere all'ennesima pellicola. Dubito, pertanto, sia stato un problema anche in questo caso. E' proprio che l'ultima fatica di Jarmursh zoppica vistosamente pur essendo in grado di volare.


Se da un parte "Only Lovers Left Alive" ricrea una dimensione lontana e alienante, dall'altra, quando si tratta di dar voce ai suoi personaggi, inciampa in ostacoli invero fin troppo evitabili per un autore navigato come Jarmush, forse troppo affascinato questa volta dalla sua stessa storia, in potenza emotivamente enorme e assai romantica, in effetti.
E' una  storia di amore e intimismo immersa in uno scenario fantasy che presta solo il volto al racconto, dandogli la possibilità di amplificare emozioni e fascino. Un po' come la fantascienza di "Another Earth" o "Melancholia", per intenderci. Viene nuovamente rispolverata la figura del vampiro senza tempo, della figura che ha visto e vissuto intere epoche, che può con la sua eternità rendere epici dinamiche e sentimenti in realtà prettamente umani. Nel ricercare ulteriore fascino, inoltre, il regista immerge il tutto in uno scenario decadente e disilluso, quello di una Detroit che riesce a vivere solo dei fasti passati, in grado già da solo, ma sempre in potenza, di tenere tutto in piedi. E ancora, per non farsi mancare nulla, affianca a questo un altro scenario altrettanto ammaliante: una Tangeri tanto distante quanto calda e avvolgente.
A venirne fuori è la dimensione calssica e riconoscibile della filmografia del regista, collocabile solo in termini geografico-temporali, perché del tutto sfuggente a livello emotivo. Succede ogni volta con le sue pellicole, ed ogni volta si ha sempre la sensazione di essere coscienti, fino a che si esce dal cinema o ci si allontana dallo schermo e si ha a che fare con la difficoltà evidente di risintonizzarsi con la dimensione reale. Capacità ormai sempre più rara, nonché valore aggiunto e discriminante quando si parla di gente che fa cinema e gente che ci prova.

Muovendosi tra i resti di grandi teatri ormai adibiti a parcheggio, i resti di eccellenze industriali e ovviamente i resti dell'anima musicale di Detroit, il regista statunitense delinea prima e percorre poi i sentieri di una depressione, quella del protagonista, che diviene il soggetto del ritratto di una realtà fatiscente e senza speranza.  Si muove lentamente Jarmush, ovvio - difficile sia in grado di muoversi in altra maniera - e si prende tutto il tempo per soffermarsi sull'animo della sua coppia di vampiri e sull'amore che per secoli li ha accompangati, traghettandoli fin qui. Lo fa con una regia che raramente concede attenzioni ad altro, che preferisce, variando angolazioni e movimenti, concentrarsi e rifugiarsi nel tepore dei due amanti.
Del resto non ci sarebbe di fatto nemmeno un intreccio da seguire, se non quel minimo indispensabile a non immobilizzare un racconto. Semplicemente è un immergersi, la pellicola, nella dimensione raccontata al solo fine di restarci per un paio d'ore.


Il senso quindi dell'ultimo lavoro di Jarmush è chiaro, e viene anche raggiunto per certi versi. Peccato però, come accennato in precedenza, che con quei dialoghi non si vada da nessuna da parte. Sembrano presi in prestito da prodotti televisivi di serie b in stile "Sanctuary". Viene fuori che uno dei vampiri è Christopher Marlowe, il protagonista è stato amico di Byron e ha regalato grandi opere a Schubert, vengono fuori nomi di comodo come Fibonacci e Dr. Faust e tutto l'entusiamo viene smorzato con giochetti e scambi che lasciano in bocca quel sapore discretamente amarognolo di infantilismo e faciloneria. E ai dialoghi è affidato, è chiaro, anche il compito di descrivere lo sfacelo umano e metterlo in contrasto con l'eternità dell'amore, dell'arte e della grandezza. Di tutti quei valori che l'uomo ha dimenticato. Discorso che sì va bene, ma che forse era meglio lo si lasciasse sottinteso, ché le immagini (insieme alle musiche) in questo film parlano infinatamente meglio delle parole. Tanto che l'eterna storia d'amore, al termine, affascina solo fino ad un certo punto, l'atmosfera non riesce a rapire del tutto e le potenzialità insite nel racconto restano a conti fatti solo tali.




martedì 15 aprile 2014

domenica 13 aprile 2014

The Grand Budapest Hotel


THE GRAND BUDAPEST HOTEL (2014)




Regia: Wes Anderson

Attori:  Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Edward Norton, Bill Murray, Jude Law, Adrien Brody

Paese: USA



Wes Anderson e le sue storie fuori dal tempo. Storie, invero, che si ritagliano una porzione di realtà come la conosciamo e se la portano a spasso per i loro mondi, vestendola e truccandola a loro piacimento, conferendole al termine quell'aspetto lontano e surreale che è poi il minimo comune multiplo del suo cinema.
"Gran Budapest Hotel" è in questo senso forse ancor più distante, perché si allontana anche in termini prettamente temporali. Narra vicende che hanno inizio negli anni '30, in una Repubblica di fantasia nell'estremo est europeo, dal fascino proprio della fiaba, con tanto di voce narrante ad introdurre e portare avanti il racconto, che sa come inserirsi in maniera sapiente tra un dialogo e l'altro degli innumerevoli personaggi che si alternano, sfilando, sullo schermo. I connotati sono quindi fin da subito fantastici e con essi Anderson mette in chiaro senza mezzi termini che, come al solito, se non si è disposti a farsi trasportare in quella dimensione "fanciullesca" nella quale col tempo diviene sempre più difficile accedere sarebbe bene lasciar perdere la visione e cambiare sala finché si è in tempo.


In realtà gli stilemi della fiaba non sono sempre e solo per bambini, ma di certo la dimensione usata necessita di una certa predisposizione. Anderson infatti, pur raccontando zone e personaggi fittizi, fa comunque espliciti riferimenti alla guerra del periodo e agli squadroni nazisti, cercando però di stemperare, quasi di esorcizzare un periodo nero. Personalmente non ci ho nemmeno visto una qual sorta di satira ma, per l'appunto, semplicemetne il ritratto di un'epoca decaduta dipinta nel suo momento migliore e nella sua conseguente discesa. E non a caso, raccontare i fasti di un'epoca, o di un luogo è già di per sé strumento assai utile a trasportare in dimensioni "d'altri tempi". Anderson poi, quelle dimensioni, è bravo di suo a ricerarle, quindi son davvero poche le sequenze che servono a "Grand Budapest Hotel" per convincere lo spettatore a lasciarsi andare.
Lo stile usato ricorda fin da subito il cinema tipico degli anni in cui è ambientato il racconto, o per la precisione della decade precedente. Un cinema muto richiamato attraverso più di qualche elemento. A partire dal volto registico che si rende immediatamente riconoscibile e che vive simbioticamente con un montaggio veloce e capace di dare alla narrazione il giusto ritmo, un ritmo capace di sottolineare e valorizzare il tono caricato e caricaturale che sceneggiatura e aspetto estetico, con i suoi colori pastello e i suoi sfondi finti in cui immerge luoghi e personaggi, conferiscono al tutto.
Ciò non significa, tuttavia, che quello del regista sia uno stile più estetico che tecnico. Al contrario, Anderson resta fedele ad un rigore che non abbandona nemmeno per un fotogramma. L'eleganza con cui si muove negli spazi del suo Grand Budapest, nelle celle del suo carcere di massima sicurezza, nella piccola stanza della giovane promessa sposa di Zero, sui tetti e più in generale tra le sue perfette geometrie, è senza dubbio incantevole. Non restarne affascinati risulta al termine impresa assai ardua.

E laddove non dovesse arrivare lo stile di cui si scrive, ci sarebbe la massicia presenza di facce note (scelta intelligente) e tutte estremamente azzeccate a convincere in maniera definitiva. Una carrellata di attori di prim'ordine (Edward Norton, la sempre superba Tilda Swinton, Bill Murray, un meraviglioso Harvey Keitel, un cattivo quanto mai fiabesco Willem Dafoe e altri) si alternano sullo schermo e affiancano con parentesi sempre brevi Ralph Fiennes nei panni un protagonista che fa suo in tempo zero, non perdendo un colpo che sia uno.


Funziona tutto, quindi, in quest'ultimo lavoro di Wes Anderson. Il racconto scorre via con leggerezza e gusto, addomentando la razionalità e ingraziandosi gli occhi dello spettatore, che godono di uno spettacolo visivo innegabilmente piacevole. Ciononostante, così come per le altre pellicole del regista, o almeno quelle viste, in un punto imprecisato della narrazione subentra una certa stanchezza. Non che qualcosa venga meno, intendiamoci, semmai il contrario. Tuttavia forse il problema è che non si va mai oltre. Dietro la leggerezza di Wes Anderson, le sue geometrie e la sua ricercatezza, i suoi incanti, non c'è poi molto. Ovvio, in parte, che sia così, considerato lo spirito di una pellicola simile, ma è vero anche forse che c'è davvero troppo poco, alla fine dei conti. Se da un lato si crea una certa empatia fiabesca dall'altra non si crea tutta questa empatia per il racconto in sé, verso cui, come si scriveva, ad un certo punto si avverte via via un interesse sempre minore. Certo non si fa fatica ad arrivare alla fine, ma al termine della visione si ha quella sensazione di aver visto un film carino ma nulla più. L'incanto sarebbe potuto essere più avvolgente, il racconto più interessante, o reso più interessante, il coinvolgimento ben maggiore, ma tutto ciò non avviene, e il retrogusto di un film potenzialmente meraviglioso (nel senso proprio del termine) ma nei fatti non più che gradevole, resta.



lunedì 31 marzo 2014

Nymphomaniac


NYMPHOMANIAC (2013)




Regista
: Lars Von Trier


Attori: Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Uma Thurman

Paese:
  Denmark/Germany/France/Belgium/UK


Raccontare il senso di vuoto esistenziale e girare una pellicola vuota emotivamente. In linea di massima avrebbe senso. O meglio, in termini di logica avrebbe senso: vuoi ritrarre un'asepsi emotiva, ergo non fai passare emozioni oltre lo schermo. Sì, siamo d'accordo, però c'è un piccolo aspetto da tenere in considerazione, ossia che si sta parlando pur sempre di un prodotto cinematografico. E un prodotto cinematografico dovrebbe in teoria suscitare un certo trasporto, una certa empatia. Dovrebbe, insomma, redendersi interessante per permettere allo spettatore di voler andare avanti con la visione, di godersi, nel bene o nel male, la storia che gli viene raccontata.


Ora, il piccolo Lars con le sue piccole turbe sembra essersene reso conto. Dopo l'orrido "Antichrist", infatti, gira "Melancholia" (seconda pellicola della trilogia ideale sulla depressione. L'ultima è appunto "Nymphomaniac") e capisce che per raccontare il vuoto deve comunque far passare robe dall'altra parte. E così fa. Pur avendo, il suo film apocalittico, più di un punto debole - dagli eccessi che non sa gestire al caricare troppo, fino a spiattellarle in faccia, le sue riflessioni sulla cattiveria umana e sulla depressione, tanto che sembra di leggere la bacheca facebook di un emo di 14 anni - riesce nell'intento di costruirsi un suo fascino, di trasmetterlo, di renderlo pertanto fruibile a chi guarda.
Nello stesso modo, Lars trova il giusto codice per affrontare questa sua ennesima pellicola sul tema. Se in precedenza era stata la dimensione apocalittica in cui aveva immerso storia e protagonisti, questa volta il suo strumento è l'ironia. Un'ironia di cui invero non credevo fosse capace. La inserisce in maniera sapiente nella discussione lunga tutto il film a cui è affidata la narrazione. Smorza i toni e rende una storia grigia un po' meno grigia, o forse inframmezza una storia nera con parentesi di colore, ciò che è importante è che questa scelta sembra funzionare. E' affidata alla dicotomia tra due personaggi apparentemente agli antipodi, una ninfomane dominata dagli istinti, Joe, e un vecchio asessuato che razionalizza ogni minima dinamica, Seligman, dando forma a parentesi singolari che contrastano lo stile registico/narrativo rigido e chirurgico di Von trier. Stesso ruolo hanno le scelte musicali presenti soprattutto nella prima parte (Rammstein e Steppenwolf), ben distanti dalla fisionomia della pellicola. L'eleganza nella costruzione delle scene, quindi, non è più mero esercizio di stile ma si veste di aspetti in grado di darle un senso.


Ci si ritrova a vivere la vita raccontata in prima persona della protagonista, l'epopea sessuale nella quale si lascia andare senza nemmeno cercare appigli. E' interessante seguirla, osservarla, cercare di capire, godendo al tempo stesso delle parentesi grottesche in cui si ritrova di volta in volta (ottima la parte con Uma Thurman). Così fino ad un punto di svolta, che coincide con la chiusura del primo dei due volumi in cui hanno diviso la pellicola della durata di 240 min - cosa che non andrebbe mai fatta, dato che se il regista ha deciso che servono 4 ore per raccontare ciò che vuole raccontare, vuol dire che ne servono 4, da non spezzettare a cazzo, ma i motivi della distribuzione sono in parte comprensibili e ok.
Il punto di svolta è la perdita di una ninfomane del proprio strumento, il suo organo sessuale "smette di funzionare", non sente più nulla. Chiaro, qui la drammaticità per forza di cose deve aumentare, non ci si può più permettere di usare l'ironia come prima. Da qualche parte la storia deve arrivare. Quindi dopo l'ultima parrentesi ironico/grottesca i toni si fanno ancora più cupi, ed è qui che a mio avviso Von Trier inizia a perdersi. Non trova un codice sostitutivo dell'ironia per mantenere alto l'interesse, e la pellicola scivola verso l'asepsi emotiva di cui si scriveva inizialmente. Le successive due ore sono meno un ritratto romanzato e più un elenco di eventi. Ciò che nella prima parte era solo una sensazione, qui si concretizza, e la paura che si risolva tutto in noia prende sempre più forma fino ad arrendersi alla consapevolezza che è ciò che succederà. E di lì a poco infatti succede. Si ha sempre meno voglia di assistere a cosa accade, di capire come e dove andrà a finire. E un attimo dopo, quando Lars si autocita, quando cita nientemeno che "Antichrist" capisci che non c'è più scampo. Di nuovo un maledetto bimbo lasciato libero di andare sul balcone mentre nevica, causa richiami sessuali. A quel punto anche la speranza viene meno.


Quanto narrato dopo, non a caso, non è che un totale deragliamento dal punto di vista, questa volta, prettamente sceneggiaturistico. Il percorso di Joe diviene, volendo usare un eufemismo, poco credibile, per non usare termini come "sciocco" o sinonimi vari. L'ultima parte è un trascinarsi a fatica tra le solite forzature, tra dialoghi deboli e riflessioni a volte semplicistiche a volte ben poco interessanti, tra un capezzolo stimolato e una golden shower che, fumante perché in contrasto col freddo, fa scena (dettagli sessuali che come il resto smettono di essere funzionali). La visione diventa quasi insostenibile e dato che siamo al termine non c'è modo di riprendere il giusto binario. Anche perché se dopo 3 ore e mezza mi propini svolte simili è difficile che tu sappia riaddrizzare il tiro.

E alla fine tutto si chiude, con un evitabile twist ending un po' telefonato e figlio dell'adolescente che c'è in Lars. Si chiude l'ennesimo spreco di un regista che fino ad un certo punto è un signor regista (è sempre il nome dietro quel capolavoro che è "Dogville") e che oltre quel punto lascia le redini alle sue turbe esibizioniste, oltreché forzatamente provocatorie, e perde di vista tutto il resto.



martedì 11 marzo 2014

True Detective



TRUE DETECTIVE (2014)





Ideatore: Nic Pizzolato 

Attori: Matthew McConaughey, Woody Harrelson, Michelle Monaghan

Paese: USA


Credi di essere abituato a ciò che un'opera audiovisiva può offrirti. Ne hai viste tante, ne hai riconosciuto da tempo la potenza, impari a non meravigliartene ancora. A goderne, ad apprezzarle, ma non a meravigliartene. E poi capita che ti colpiscono dritto sul piede d'appoggio, ti ritrovi sospeso a mezz'aria tra la sorpresa di trovarti in quella posizione e lo scenario nell'immediato futuro di colpire il suolo con tutto il peso del tuo corpo. Fino a che, un attimo prima che accada, ti riprendono, e ti lasciano inerme lì, senza appigli, a godere di tutto ciò che ti offriranno. Ogni tanto provi a razionalizzare, a guardare il tutto in maniera più distaccata. Ad analizzare, a cercare di capire, a freddo, il reale valore artistico di quanto stai guardando, al netto di un forse eccessivo trasporto emotivo. E' che in realtà è una stronzata, lo sai quando stai vedendo un capolavoro, te ne accorgi, sai che verrai preso a schiaffi come un bambino che è atterrato qui dal passato e vede un film per la prima volta.


True Detective è una roba eccessiva. Consolida il podio della HBO, che si impone su tutte le altre emittenti a mani basse. Consolida la superiorità del mezzo televisivo sull'attuale cinema in maniera quasi umiliante. E' la dimostrazione che chi individua ed impara ad utilizzare i codici televisivi può tirare fuori opere davanti a cui l'unica cosa da fare è tacere. Normalmente livelli tali vengono raggiunti da serie che si prendono come minimo 4 anni, nei quali sviscerano storia e personaggi a cui durante tutto quel tempo non puoi non affezionarti, restituendo al termine ritratti che racchiudono piccole epopee. Qui invece siamo andati oltre. Una sola stagione, solo 8 puntate, ma dopo l'ultima sequenza sembra di aver assistito ad una storia enorme. In termini temporali in effetti lo è, racconta quasi vent'anni, con continui salti tra presente e passato. La maestria è lì, poteva facilmente spezzare l'emotività, risultare macchinoso e invece riesce nell'intento di fare l'esatto opposto. Un montaggio fluido come non se ne vedevano da tempo sfuma ogni sequenza da una decade all'altra senza che si avverta alcun sipario chiudersi e riaprirsi; non si ha mai quel fastidioso desiderio che la storia torni subito su un piano temporale piuttosto che sull'altro perché è più interessante il primo del secondo, o viceversa. Tutti i piani sono curati e perfettamente calibrati, sono tutti interessanti allo stesso modo. Sono gestiti così bene che quasi nemmeno si avvertono.
Se anche fosse successo, invero, non se ne sarebbe accorto nessuno perché la dimensione in cui viene immerso il racconto è così magnetica, così distante, così meravigliosamente finta da smorzare ogni criticità. Più che una dimensione sembra liquido amniotico. Capisci a quel punto che avevi valutato male, che non sei sospeso a mezz'aria, sei da qualche altra parte in cui la gravità non è la stessa, in cui la percezione scopre l'elevazione a potenza, in cui il mondo esterno non ha accesso, un posto in cui il tempo sperimenta la relatività. La narrazione è una delle variabili principali dell'equazione amniotica di cui si sta scrivendo. E' lenta, ipnotica, sa perfettamente cosa sta raccontando e sa perfettamente come farlo, ha completo controllo della situazione. La singola puntata sarebbe potuta durare anche 3 ore, sarebbero sembrati i soliti 5 minuti. Dilatati, in realtà, non 5 minuti, ma comunque 5 minuti. Come scrivevo, il tempo sembra funzionare diversamente.


Laddove anche la creazione della dimensione avesse avuto qualche stortura, di nuovo, non se ne sarebbe accorto nessuno, perché a cullare la razionalità con l'emotività ci avrebbero pensato questa volta le musiche, le ambientazioni fuori dal tempo, già di loro distanti dalla civiltà come la conosciamo, fatta di lavori, macchine, rumore, gente, tv, radio; ambientazioni ulteriormente romanzate fino a renderle le uniche isole di quella dimensione fluttuante di cui si scriveva poco sopra. Ad occuparsi di romanzarle sono, è chiaro, fotografia e regia. Superba la prima, superba la seconda. I movimenti di macchina sono il mezzo principale attraverso cui la narrazione prende corpo, ancor più della narrazione stessa affidata ai protagonisti chiamati a raccontare il caso. Diegesi e regia si fondono in codici unici e anche qui la sinergia fra i due mezzi è impeccabile, non una sbavatura, non un'incertezza. Nulla.

Si ipotizzava, come mezzo per intenderci, il caso in cui un aspetto non fosse riuscito come gli altri. Si ipotizzava come gli altri avrebbero sopperito senza problemi. Ora allontaniamoci dall'ipotetico e torniamo alla realtà, e cioè al fatto che nessuna delle colonne portanti dell'opera ha cedimenti di sorta. Nessuno degli aspetti riesce ad essere meno perfetto di altri. Il dialogo fra gli stessi è perfetto anch'esso, sembra che parlino tutti la stessa lingua, e che ognuno le parli tutte. Il risultato è clamoroso. E la cosa quasi ridicola è che si sta parlando in toni così entusiastici senza ancora aver menzionato gli aspetti forse più importanti, ossia sceneggiatura e personaggi. Non scriverò della prima, finirei per raccontarla e sminuirla, bisogna viverla, ma due parole su Marty e Rust vanno spese. Scritti da Dio questi due detective, umani, vivi. L'uno l'opposto dell'altro, il primo è il ritratto della media umana il secondo è il ritratto di un borderline. Entrambi alla deriva, ma in oceani differenti. Uno se ne rende conto solo fino ad un certo punto volgendo spesso lo sguardo altrove, l'altro in quella deriva distruttiva sembra aver trovato la sua dimensione, non preoccupandosi di perdere un pezzo di sé lungo ogni sentiero percorso. E' stupenda la maniera in cui interagiscono, come faticano a trovare un canale di comunicazione da un oceano all'altro, è stupendo come si ritrovano sulla stessa riva alla fine, malconci ma più vivi di prima, dopo essere strisciati via da una storia maleodorante e nichilista ma quanto mai catartica e intrisa di esistenzialismo. Una frase in chiusura strepitosa, biascicata dal solito Rust, liquefà il cuore e pietrifica il resto del corpo:

If you ask me, the light is winning”.


Woody Harrelson enorme. Matthew McConaughey enorme. Applausi a scena aperta.

Fottuto capolavoro.





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