venerdì 8 febbraio 2013

"House of Cards": salve Netflix


HOUSE OF CARDS (2013)





Creatore: Beau Willimon

Attori: Kevin Spacey, Robin Wright, Kate Mara

Paese: USA



Interessante, “House of Cards”, non solo per il prodotto in sé ma anche per la scelta da parte di Netflix – società statunitense che da qualche anno propone un servizio streaming dietro abbonamento – di lanciare un prodotto seriale senza costringere lo spettatore ad attendere i tempi di programmazione. Sì, strano a dirsi, la Netflix ha pubblicato in rete l'intera prima stagione di HoC in una sola volta. Molti saranno entusiasti di questa scelta, io personalmente ne farei l'ottava meraviglia del creato. Da appassionato di serie televisive ho sempre odiato e ritenuto davvero troppo riduttiva la programmazione settimanale. Non aiuta a godere del prodotto completo, si guardano circa 40 minuti ogni settimana, ossia il tempo di entrare all'interno di quanto raccontato che già ci si trova ad uscirne e a dover aspettare altri sette giorni. Non è un caso che abbia sempre optato per l'attesa della fine della stagione, e per la visione della stessa solo successivamente, secondo tempi scelti unicamente da me.
Si potrebbe pensare, abituati alla normale programmazione, che una scelta simile nasconda un prodotto magari non in grado di competere con i grandi. Non si butta lì una gallina dalle uova d'oro come se niente fosse. E in realtà, invece, è proprio così, perché HoC si rivela già dopo la prima puntata un prodotto che non solo ai grandi non ha nulla da invidiare, ma che è capace di farne vacillare più d'uno.


La narrazione segue le vicende di un classico politico senza scrupoli, Frank Underwood. Si è costruito giorno dopo giorno il suo posto al fianco del presidente degli Stati Uniti neoeletto, sì da ottenere l'ambito posto di Segretario di Stato. Dopo la vittoria gli viene comunicato che si è scelto di dare quella poltrona ad un'altra persona, e questo ad Underwood non piacerà affatto, né tanto meno ci passerà su come se nulla fosse. Lo si legge in una maniera alquanto chiara nello sguardo di Kevin Spacey, che smette per l'occasione di essere Kevin Spacey e diviene Underwood. Chiariamo immediatamente, infatti, che la sua prova è straordinaria. Certo, la bravura dell'attore è nota, ma ciò non vieta di meravigliarsene ogni volta. Il personaggio è suo dopo poco più di 60 secondi, ossia quando rivolgendosi allo spettatore dice: “I have no patience for useless things”. Già, HoC tra le altre cose si distingue anche per le esternazioni che il protagonista rivolge a chi guarda (senza che vi sia alcun cambiamento nell'ambientazione), spesso spiegando in maniera tagliente cosa sta accadendo, cosa accadrà e perché. E diciamocelo francamente, in un intreccio politico non del tutto semplice, e anche abbastanza veloce, serve abbastanza, altro che critiche sulle varie forme di spiegone. Qui è decisamente utile. E poi Spacey, enorme, lo fa in modo magnetico, quindi va benissimo così.

Altro nome interessante: Beau Willimon. Co-sceneggiatore de “Le Idi di Marzo”, anch'esso un thriller politico, è colui che si è occupato di concretizzare l'intenzione della Netflix di proporre questo rifacimento della serie originale. Dà al prodotto lo stesso volto del film diretto da Clooney, quell'espressione disillusa, quella fotografia livida e quel portamento assai elegante. Se nel caso de “Le idi di Marzo”, tuttavia, qualcosa nella sceneggiatura zoppicava, qui invece la velocità di crociera si assesta su valori ben più alti, senza intenzione alcuna di discostarsene, se non verso l'alto. Ancora: David Fincher. Produttore esecutivo, tra gli altri, e regista dei primi due episodi. Ora, basta tenere a mente cosa ha combinato in “The Social Network”, rendendo una storia che minacciava le palle a km di distanza, una storia al contrario quanto mai scorrevole e dal ritmo insospettabile. Qui propone grosso modo la stessa regia, dettando tempi e modi ai quali si adatterà la regia degli episodi successivi. Chiara, supportata da un montaggio fluido, veloce quanto basta, pulita e concentrata sui personaggi, sì da non farsi sfuggire espressione alcuna. Del resto sono loro la serie, in questo caso più che in altri; loro e il loro pantano di dinamiche melmose e maleodoranti, ma vestite di tutto punto.


Tra modi attenti, immagine curata e fascino di facciata, infatti, si nascondono ragnatele intessute in maniera non semplicemente cinica, ma spregevole, solo apparentemente magnetica ma realmente nauseante, illuminate da una luce fredda minacciata solo a tratti da sorgenti calde in grado di resistere giusto il tempo di spegnersi sotto i colpi del gelo circostante. Massima espressione di ciò è il rapporto tra Frank e sua moglie, che non a causa mostra a tratti segni di cedimento più o meno contenuto, conseguenza di un malessere che minaccia di esplodere alla minima crepa, serpeggiando tra gli innumerevoli e spesso velenosi scambi. Colonne portanti, quest'ultimi, di dialoghi onnipresenti, attributo principale dell'intero prodotto. Ad essi il compito, anche, di calpestare ogni aspetto umano che cerca di farsi strada durante il racconto, seppur, è ovvio, non riusciranno a farlo a lungo. Non è possibile nella vita reale, né qui. Ed è questo che suggerirà la direzione da seguire alla seconda stagione.

La Netflix si presenta quindi in grande stile, con un prodotto che come si scriveva poc'anzi non ha nulla da invidiare a nessuno – salvo forse qualche caduta di stile, piccola ma evidente se confrontata con la gestione impeccabile di tutto il resto. Mostra inoltre, la Netflix, gusto ulteriore ufficializzando l'intenzione di sviluppare, dopo 7 anni, una quarta stagione di “Arrested Development”, sit-com inspiegabilmente sottovalutata. Ed è anche il caso a questo punto di tener d'occhio la nuova serie televisiva che proporrà ad Aprile, “Hemlock Grove”, horror/thriller con Eli Roth come produttore esecutivo.


lunedì 4 febbraio 2013

HBO does it better...


BANSHEE (2013)





Creatore: David Schickler, Jonathan Tropper

Attori:  Antony Starr, Ivana Milicevic, Rus Blackwell

Paese: USA



 "Banshee", secondo la mitologia irlandese e scozzese, è uno spirito femminile che si palesa agli occhi di colui/colei che da essa viene toccato. I suoi occhi sono sempre arrossati dal pianto, si dice, e la sua apparizione è accompagnata da urla e lamenti. La persona che è stata toccata, infatti, è destinata a morire di lì a breve.
"Banshee", è anche il titolo della nuova serie HBO. "Banshee", nello specifico, è il nome della cittadina che ospita un intreccio invero molto adatto ad una scelta simile. E' la storia di uno dei migliori ladri in circolazione, Lucas Hood, che dopo essere stato in galera per 15 anni, decide di sistemarsi nella cittadina di cui sopra, spacciandosi per il nuovo sceriffo. La cittadina, ovvio, non è propriamente pulita, ed è anzi governata ufficiosamente da Kai Proctor, gangster psicotico non abituato a non avere qualcosa sotto controllo. Se si considera, poi, che il passato di Hood non si è certo dimenticato di lui, si capisce bene che il nome dato e alla serie e alla cittadina sia quanto meno indicato. Ed effettivamente dopo appena qualche puntata, ma diciamo anche dopo i primi minuti della prima, se ne ha chiara conferma.


Il pilota si apre con un brano che definire sporco sarebbe un eufemismo. “Fifth of Whiskey” di Verse and Bishop traccia fin da subito le linee guida di un'atmosfera assai rarefatta, tratto principale della serie. Un'atmosfera, per certi versi, anche esasperata, così come alcune scelte di sceneggiatura, che potrebbero in verità far storcere il naso. Un eccesso che però, parere di scrive, può farsi rientrare tranquillamente in quell'aria quasi fumettosa, come suggerisce anche la locandina, capace di imporsi fin dall'inizio. Spesso, infatti, la serie sembra spingere verso espressioni che potrebbero tranquillamente definirsi pulp, con quel suo non evitare ma anzi cercare una violenza anche spettacolare (nel senso proprio del termine), quel non disdegnare affatto l'aspetto sessuale, non centellinandone assolutamente la presenza, e con quell'atteggiamento generale chiaramente autocompiaciuto. Non è un caso che l'intreccio sia popolato di hacker drag-queen a cui sembrerebbe il caso di non dare troppe rogne, di gangster ben al di là di quella che si definirebbe sanità mentale, di scopate occasionali che non ci si preoccupa troppo di non far sembrare messe lì giusto perché in quel momento un paio di tette sballottate qua e là ci stavano bene (con il montaggio che sembra preoccuparsene anche meno), di un protagonista che non sembra farsi troppi problemi a rispondere alla violenza con un livello di violenza ancora maggiore. La terza puntata, a tal proposito, riserva nella parte finale parentesi meravigliose, che scoprono definitivamente il volto del prodotto e dichiarano senza troppe storie che quanto visto fino a quel momento non era solo un modo per aprire col botto ma il preludio, al contrario, alla reale violenza che sarebbe venuta (e che verrà, si spera) in seguito.

Il ritmo, lo si intuisce facilmente, è quanto meno elevato. Non che non ci si preoccupi di approfondire in maniera particolare i personaggi, è solo che l'introspezione è misurata al fine di non intralciare mai troppo l'aspetto più pulp del racconto. Non sia mai che qualche discorso di troppo sull'aspetto umano dei personaggi precluda allo spettatore la possibilità di vedere discrete quantità di sangue e cazzotti. Non sarebbe carino, in effetti. E se Alan Ball non l'ha fatto in “True Blood”, giustamente, non v'è motivo per cui dovrebbe proporlo al contrario in questo caso. Sì, perché Alan Ball è tra i produttori esecutivi della serie, creata invece da due volti abbastanza nuovi nell'ambiente, Jonathan Tropper e David Schickler.
Anche i dialoghi, che potrebbero facilmente scadere in ogni sorta di banalità con un simile soggetto ed un simile sviluppo, tengono bene il passo. Non eccezionali, ma forse neanche necessitano di esserlo, dovendo semplicemente restare fedeli a personaggi che, come si scriveva poc'anzi, non possono vantare chissà quale spessore. L'importante è che non siano un ammasso di frasette idiote anelanti all'essere d'effetto. E fortunatamente non lo sono. Tutt'al più lo sono il giusto.
Quanto appena scritto peraltro, con i dovuti adattamenti, è quanto si potrebbe scrivere delle interpretazioni (grazie a Dio di attori quasi sconosciuti), in particolar modo di quella di Antony Starr, nella parte del protagonista.

Ulteriore prodotto per cervelli spenti, quindi. Ha tutti gli elementi perché continui su livelli assai discreti, benché ne abbia altri, per ora pochi e veniali, come l'inizio del quarto episodio, l'ultimo andato in onda, che laddove dovessero prendere il sopravvento rischierebbero di buttare un po' tutto alle ortiche. E viste le premesse sarebbe davvero un peccato ancor prima che uno spreco, considerato anche il fatto che è già stata ordinata, dopo appena tre episodi, una seconda stagione.

                              

Date un'occhiata al trailer qui sopra, se non altro per ascoltare la fantastica “F.E.A.R.” dei Various Cruelties, e laddove dovesse convincervi, nel guardare le puntate ricordatevi di aspettare la fine dei titoli di coda.


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