mercoledì 29 febbraio 2012

No Rest for The Wicked


NO REST FOR THE WICKED (NO ABRÀ PAZ PARA LOS MALVADOS) (2011)




Regista: Enrique Urbizu

Attori: José Coronado, Rodolfo Sancho, Helena Miquel

Paese: Spagna


No Rest For The Wicked” è un piccolo mistero, diciamocelo chiaramente. Alla ventiseiesima edizione dei Goya, il riconoscimento cinematografico più importante in Spagna, ha sbaragliato la concorrenza portandosi a casa ben 6 premi, quelli più importanti: miglior regia, miglior film, miglior sceneggiatura originale, suono, montaggio, miglior attore. E in gara c'era anche un certo Almodovar. Ora, non si capisce se le altre pellicole fossero particolarmente scarse, e se quindi, dovendo comunque consegnarli questi premi, la pellicola di Urbizu si è ritrovata a farne man bassa, oppure se se ci si è lasciati prendere un po' troppo la mano nella consegna degli stessi. Fatto sta che l'ultimo lavoro del regista spagnolo è tutto fuorché convincente al punto di imporsi in una maniera simile anche all'esterno della manifestazione.

Le premesse, però, sono al contrario ottime, tanto che dopo aver letto il soggetto le si dà piena fiducia senza remora alcuna, e nel caso vi sia i premi ricevuti aiutano notevolmente a metterla a tacere. Santos Trinidad è un poliziotto sempre più alla deriva, solo e alcolizzato. Dopo una carriera che sembrava destinata a brillare, viene trasferito alla sezione “persone scomparse” senza luminosi futuri professionali all'orizzonte. Una sera, dopo aver bevuto troppo, più del solito, se la prende con il gestore di un bar, colombiano e non propriamente pulito, e finisce con l'uccidere tre persone. Una quarta riesce a scappare e Santos non potrà fare altro che mettersi alla ricerca dell'uomo. Parallela l'indagine della polizia sui tre omicidi nel bar, che si imbatterà inevitabilmente nel protagonista.


Le prime sequenze sono assai accattivanti, in termini di fotografia come anche di dialoghi e regia. Il personaggio convince immediatamente con quel suo essere rozzo, trasandato e palesemente pericoloso. Lo stile, seppur cinematografico, è asciutto e sembra non aver intenzione di ricorrere a fronzoli di sorta, infatti per l'intera durata della pellicola non se ne vedrà nessuno. Solo la fotografia si mostra più propensa ad un certa ricercatezza, specie in termini di cromatismi, tanto che la sequenza che scatena poi l'evolversi dell'intreccio è assai notevole. Dopo di essa, però, sembra che Urbizu decida di smettere di voler comunicare con la sua macchina da presa, disattendendo sequenza dopo sequenza le promesse iniziali. Lo stile registico da asciutto si fa leggermente asettico, pur restando funzionale, la fotografia diviene invece del tutto anonima (salvo casi isolati) e Trinidad non trasmette più alcuna emozione. I dialoghi, allo stesso modo, mostrano una debolezza che di certo non ci si aspetta dopo un inizio così convincente; non che in apertura siano sconvolgenti, intendiamoci, ma mostrano con qualche scambio di sapersi mettere al servizio di una simile sceneggiatura. Nel prosieguo, invece, non sono altro che un susseguirsi di frasi correlate all'indagine, fredde e in nessun modo capaci di dare profondità ai personaggi, che appaiono infatti anonimi e poco interessanti. 


Non sono solo i dialoghi, tuttavia, a non convincere ma l'intera sceneggiatura, che si concentra unicamente sul portare avanti l'intreccio, quasi a scriverla sia stato un automa. Non vi è una parentesi che sia una interessata a raccontare la parte più viscerale di questa caccia all'uomo, nonostante in una storia del genere sia preponderante. Si alternano al contrario parentesi senza anima alcuna, che mettono in scena i tasselli dell'intreccio a mo' di elenco più dovuto che sentito. Oltre ai personaggi, quindi, tutto quanto accade si rivela poco interessante. Si fa fatica ad andare avanti con la visione, tanto che lo si fa più che altro per inerzia. E se non fosse per il ritmo serrato non ci si riuscirebbe neanche. Sì, perché almeno il ritmo è sostenuto, peraltro al punto che con poco, con un minimo di pathos, la pellicola ne avrebbe considerevolmente guadagnato, rendendosi magari non una visione imperdibile ma comunque piacevole. Non accade invece niente di simile, e anche nel finale, climax del racconto, l'asepsi emozionale regna sovrana, con la macchina da presa in chiusura sull'attore protagonista che ringrazia con un movimento assolutamente ridicolo e poco credibile. 


“Spreco” è senza dubbio alcuno il primo termine che viene in mente a fine visione. Non solo infatti la sceneggiatura è in potenza assai efficace, ma anche la gestione tecnica (intenzionalmente, almeno) è tale che si sarebbe potuta risolvere in una valorizzazione affatto indifferente di storia e personaggi, in grado di restituire un poliziesco duro, sporco e di un realismo capace di coinvolgere ed emozionare. Ma ha vinto ben 6 premi, probabilmente i limiti sono tutti di chi scrive.


martedì 28 febbraio 2012

Once Upon a Time in Anatolia


ONCE UPON A TIME IN ANATOLIA (2011)





Regista: Nuri Bilge Ceylan

Attori: Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel

Paese: Turchia


Tre macchine percorrono in fila strade periferiche. I loro fari sono le uniche fonti di luce ad illuminare tanto la strada quanto parte del paesaggio. In esse alcuni poliziotti, un procuratore e un dottore in cerca di un cadavere, quello di un uomo ucciso e seppellito da un uomo ammanettato anch'egli all'interno della macchina. Sembra però che quest'ultimo, pur avendo promesso di accompagnare i poliziotti al corpo della vittima, abbia avuto un qualche ripensamento, tanto da far girare a vuoto le tre macchine e gli uomini al suo interno.

Un soggetto particolarmente indicato per un thriller in piena regola, dallo scenario perfetto e dalle potenzialità enormi. Tuttavia Ceylan in un soggetto simile tende a vedere altri aspetti, quelli più drammatici e introspettivi; in un'ambientazione così buia, vasta e illuminata unicamente da qualche fascio di luce un luogo capace di scandagliare l'aspetto più intimo dei suoi protagonisti, un luogo capace di scavare nelle loro personalità; nella ricerca di un cadavere un mero pretesto per raccontare tutt'altro. I protagonisti sono tali in tutti i sensi, non dovendo condividere il ruolo di primo piano con un intreccio propriamente inteso. Per quasi due ore e mezza, infatti, l'interesse verso la ricerca del cadavere è pressoché nulla; solo inizialmente, prima di inquadrare gli intenti del film, si è in parte trascinati dalla stessa, ma il regista decide di non servirsene in nessun modo e delinea fin da subito sequenze volte ad azzerare il fascino poliziesco insito nel racconto. Rende il susseguirsi dei luoghi e dei tentativi di trovare il cadavere, scanditi dalle incertezze del criminale, una routine spenta e noiosa, che infastidisce personaggi interessati o a tornare a casa quanto prima o ai chilometri che delimitano la giurisdizione o a problemi domestici.


Resi quindi palesi gli intenti della pellicola, il regista turco si insinua nei vari caratteri cercando di disseppellire incertezze e sospesi, illuminando ambienti e volti senza rinunciare nel contempo a quelle ombre che suggeriscono interesse. Costruisce così un prodotto principalmente basato su una fotografia che fa dei tagli di luce il suo unico, almeno nella prima parte, linguaggio. Qui il passato e il presente da fotografo di Ceylan si mostrano essenziali: rende le immagini affascinanti e magnetiche, centellinando le fonti di luce ma al tempo stesso esaltandole. Si scriveva dei coni luminosi tracciati dai fari delle auto a tagliare l'oscurità della periferia turca, ma ancor più rilevante e incantevole è in questo senso la sequenza in cui la giovane figlia del sindaco distribuisce bevande agli ospiti, tutti a loro modo stanchi e provati dalla ricerca come dalla loro esistenza, in cui la fotografia raggiunge forse il suo apice nell'illuminare un volto che appare angelico non più solo esteticamente.
Invero il risultato tecnico è eccezionale nel suo complesso. La regia infatti non è da meno. Si adagia sui tempi lenti dello sviluppo narrativo e li fa propri, alternando primi piani e campi lunghi calibrati e mai brevi che si soffermano al punto di permettere di osservare ogni dettaglio. Un'eleganza formale per niente asettica ma capace, al contrario, di ammaliare per l'intera durata della pellicola, o se non altro per la gran parte di essa. 


Nel momento in cui l'ambientazione suggestiva delle strade sterrate, dei campi sconfinati e dei volti angelici viene meno, infatti, si avverte gradualmente un strano retrogusto, quasi fino ad allora non si fosse poi visto molto in termini di spessore. Persi nelle immagini non ci si rende conto che il regista turco non sta offrendo quell'introspezione tacitamente promessa inizialmente e che i personaggi raccontati non sono poi così interessanti, che non hanno poi molto di sé da svelare, o da scoprire. Non è un caso che il punto debole dell'ultimo lavoro di Ceylan siano i dialoghi, che a posteriori, al di fuori dell'incanto visivo, si mostrano ancor più deboli di quanto già non apparissero. Non si entra mai realmente in sintonia con i protagonisti, non si avverte quasi mai un contatto, non si avverte, soprattutto, la loro profondità, descritta ma non trasmessa. Quando torna la luce del giorno, in paese, quindi lontani dalle atmosfere e dai luoghi che hanno avvolto la narrazione fino a quel momento, ci si sveglia da una sorta di confortevole torpore emozionale e si realizza che non si è visto in realtà molto. E la risoluzione introspettiva del procuratore nel finale non basta di certo a riscrivere in termini di spessore l'opera nel suo insieme. 


Si è ben lungi, sia chiaro, dal definire “Once Upon a Time in Anatolia” una pellicola non riuscita, tanto che nonostante tempi lenti e limiti riesce a non rendere quasi mai ostica la visione. È di gran lunga superiore a svariate altre pellicole preferite ad essa dalle grandi distribuzioni. Tuttavia si mostra incompleta. Riesce nell'intento di creare con le sole immagini uno scenario introspettivo, che era se vogliamo la parte più difficile, ma non a sviscerare effettivamente i personaggi, o comunque a non delinearne alcuno davvero interessante. Apre una finestra sulle sconfinate potenzialità dell'opera e si limita a lasciarle lì, senza concretizzarle. E per chi guarda questa è in assoluto una delle cose peggiori.


lunedì 27 febbraio 2012

Mirrored Mind


MIRRORED MIND  (KYOSHIN) 
(2006)




Regista: Sogo Ishii 

Attori: Miwako Ichikawa, Kou Machida, Kiyohiko Shibukawa

Paese: Giappone


Gakuryū Ishii, in arte Sogo Ishii, è noto in Giappone per pellicole ben diverse da quella di cui si scriverà a breve, e più precisamente per quelle girate negli anni '80, che l'hanno reso un punto di riferimento all'interno del panorama punk. Negli anni '90, infatti, Ishii cambia registro e si concentra invece su tempi assai differenti, spesso lenti e introspettivi, non rinunciando oltretutto ad una certa sperimentazione, tanto che chi come chi scrive non ha famigliarità con le prime pellicole del regista, farà fatica a credere ad un passato cinematografico simile. Solo “Dead End Run”, girato nel 2003, mette invero in scena scelte che per certi versi potrebbero richiamarlo, ma le accosta ad altre che invece sono, per l'appunto, tutto l'opposto. 


Con “Mirrored Mind” rende il passaggio ad uno stile ricercato se possibile ancor più netto, insinuandosi nella psiche umana e servendosene per scrivere con la macchina da presa un racconto principalmente emotivo. L'obiettivo è quello di delineare uno stato d'animo più che una storia, tanto che quest'ultima diviene quasi un pretesto. Sogo Ishii se ne preoccupa solo in apertura, per l'ovvia ed irrinunciabile introduzione: si sofferma sulla protagonista, la inquadra con un primissimo piano e senza stacchi lascia che sia lei, con frasi sparse, a ritrarre se stessa e ad introdurre a sua volta l'unica parentesi esplicitamente narrativa del lungometraggio (che è più un mediometraggio, in realtà). Ad essa, infatti, seguirà un racconto che affida l'aspetto diegetico alla potenza suggestiva delle immagini e non ad un intreccio vero e proprio. O, se non altro, questa era l'intenzione, dato che nel concreto al regista giapponese non riesce una pellicola così emotivamente potente.

È in parte difficile da credere, in realtà, considerando che in “Labyrinth of Dreams” (1997) non solo riesce ad ammaliare lo spettatore per una durata ben maggiore rispetto all'ora scarsa di “Mirrored Mind”, ma lo fa discretamente bene. Anche in quel caso puntava sul trascinare all'interno di una dimensione sfocata, intrecciata a quella interiore dei protagonisti, restituendo al termine una forza emotiva assai funzionale ed efficace. Questa volta, però, nel dare un volto filmico al malessere della protagonista, mostra uno stile narrativo così acerbo che in virtù di quanto appena scritto non ci si aspetta affatto. Quelle che si alternano sullo schermo sono sequenze banali e semplicistiche, in nessun modo capaci di tracciare un quadro che vada oltre l'aspetto estetico; le stesse, anzi, non solo appaiono fredde e ben lontane dal far sentire il limbo in cui si ritrova la protagonista, ma anche tecnicamente non sono poi così degne di nota. Si ha la sensazione che il regista abbia cercato la suggestione unicamente attraverso immagini di facile presa, ma in realtà a conti fatti deboli. 


Ad essere debole è di riflesso la pellicola nel suo insieme, che fallendo dal punto di vista emozionale, quello su cui punta praticamente tutto, non riesce a mostrare nient'altro. Di particolari riflessioni non ce ne sono, regia e fotografia nel loro voler essere ricercate si distinguono appena e l'intreccio, come si scriveva, è quasi del tutto assente. Neanche i dialoghi sono degni di nota: come tutto il resto cercano di far passare inquietudine e smarrimento, e lo fanno attraverso frasi spesso isolate che dovrebbero, nel loro essere criptiche, contribuire a rendere magnetico quanto si sta guardando; inutile dire che non accade nulla di simile e che, al contrario, risultano a tratti fastidiose, proprio perché, così superficiali, sembrano buttate lì, del tutto prive dello spessore che avrebbero voluto suggerire.

Di positivo “Mirrored Mind”, quindi, non ha molto e sebbene la durata sia assai breve se ne sconsiglia caldamente la visione. Se si vuole apprezzare le capacità registiche del cineasta giapponese sarebbe bene rivolgersi, invece, al sopraccitato “Labyrinth of Dreams”.


venerdì 24 febbraio 2012

Fubar


FUBAR (2002)





Regista: Michael Dowse  

Attori: Paul Spence, David Lawrence, Gordon Skilling

Paese: Canada


Iniziamo subito col dire che Dowse non è regista che si mostra propenso ad un cinema di spessore. Al contrario propone pellicole così leggere che durante la visione delle stesse si potrebbe tranquillamente giocare a scacchi senza preoccuparsi di non dedicare al gioco la necessaria attenzione. Per questo merita tutto il mio rispetto.

Fubar” è il suo primo lungometraggio, un mockumentary che segue e racconta due personaggi quanto meno curiosi. Terry (David Lawrence) e Dean (Paul Spence) vivono da headbangers ogni secondo delle loro giornate, bevono lattine di birra da mattina a sera, di cui molte rigorosamente d'un fiato, non si assumono alcuna responsabilità e non sembrano volerlo fare. A Dean, però, viene diagnosticato un cancro ai testicoli, e quando il regista del documentario insiste perché vada a farsi controllare seriamente, sarà costretto ad affrontarlo. E di riflesso anche il suo miglior amico Terry.


Quale sia lo spirito del mockumentary lo si capisce dopo il fotogramma d'apertura, in cui i due protagonisti stravaccati su un divano mostrano i loro volti. Questi ultimi infatti riescono da soli a strappare già i primi sorrisi, interpretando, Lawrence e Spence, i loro personaggi in maniera irresistibile (A Spence in particolare sembra che la natura abbia donato un volto praticamente perfetto per un ruolo simile. Guardarlo e al tempo stesso restare seri è davvero un'impresa). Qualche secondo più tardi Dowse alterna sequenze veloci volte a delineare alcuni degli atteggiamenti tipici dei due headbangers, e se fino a poco prima, per una qualche strana ragione, si stava realmente cercando di rimanere seri, adesso provarci sarebbe inutile: birra bevuta così in fretta da vomitarla un attimo dopo, linguaggio idiota riconoscibile dai vari “fuck” all'interno di ogni frase, abbigliamento che cercare di definirlo sarebbe disonesto e comportamenti da adolescente in preda all'adrenalina dopo l'ascolto di un brano metal.

Ever since I quit smoking, I've just been fuckin' coughing up the weirdest shit”.


Quella di Dowse, è chiaro, non è proprio una rappresentazione fedele degli headbangers. I suoi due personaggi sono palesemente caricaturali, tanto che spesso la loro idiozia sfiora il surreale. A darsi il cambio durante la pellicola sono parentesi ridicolissime in cui Dean e Terry descrivono, vivendole e raccontandole, le loro giornate, fatte di sbornie, piccoli atti vandalici e scambi che nella loro inconsistenza risultano inevitabilmente spassosi. Questi ultimi infatti, essendo un mockumentary su di loro, sono la parte in assoluto più divertente, anche quando Dowse inserisce nella narrazione parentesi più drammatiche legate al tumore di Dean o alle riflessioni sul loro stile di vita. Parentesi che tuttavia, sia chiaro, non implicano in nessun modo alcuna profondità, è anzi bene non cercare di tirar fuori dalla pellicola sottotesti sulla vita, sulle responsabilità o su qualsiasi altro tema, perché non ce ne sono, fortunatamente. Può al massimo accennare qualcosa, ma con la leggerezza di cui si scriveva inizialmente, quindi è il caso di tenere spento l'organo cerebrale e godersi le sciocchezze dei due protagonisti.

Non è da vedere a tutti i costi, decisamente no. È una pellicola di appena 80 minuti da guardare quando non si vuole usare oltre ad occhi e orecchie nessun altro organo. E se dovesse piacervi e voleste provarne un'altra del tutto simile, non rivolgetevi tanto al seguito, "Fubar II", quanto a “It's All Gone Pete Tong”, altro film leggermente fuori di testa del regista canadese.


giovedì 23 febbraio 2012

"Awake" - Pilot


AWAKE (2012)




Ideatore: Kyle Killen

Attori: Jason Isaacs, Dylan Minnette, Laura Allen, 
          B. D. Wong, Cherry Jones 

Paese: USA


Sembra che la NBC si stia dando parecchio daffare in ambito televisivo. Ha proposto e continua a proporre nell'ultimissimo periodo prodotti seriali di vario genere. Uno di questi è “Grimm”, il cui inizio non è stato però affatto convincente, tanto che sarebbe cosa buona e giusta per l'emittente televisiva cercare di proporre se possibile qualcosa di leggermente superiore. Un altro è “Awake”, che dovrebbe essere la punta di diamante delle nuove proposte. L'inizio della programmazione è prevista per l'1 Marzo, ma nel mentre si è deciso di dare in pasto agli spettatori il preair e rastrellare pareri e impressioni.

Per chi non si fosse ancora interessato alla serie, il soggetto si poggia quasi del tutto sulla figura di Michael Britten (Jason Isaacs), detective della polizia che resta coinvolto, con la sua famiglia, in un incidente stradale in cui perde la vita sua moglie Hannah (Laura Allen). Oppure suo figlio Rex (Dylan Minnette). Risvegliatosi dopo l'incidente, infatti, Britten si ritrova a sperimentare quelle che sono in apparenza due realtà parallele. Ogni volta che si addormenta, a fine giornata, scivola in una delle due realtà. Nella rossa (il colore del bracciale che usa per orientarsi ogni mattina) sua moglie è viva e Rex è morto; in quella verde, al contrario, Rex è vivo e sua moglie Hannah no. 


Che lo sviluppo narrativo, oltreché il soggetto, sia più ricercato rispetto ad un prodotto come “Grimm” diviene palese già anche dopo la visione del pilot. Si cerca infatti fin da subito di dare un certo spessore ed una personalità riconoscibile al protagonista, che fortunatamente non risulta questa volta del tutto anonimo. Gran parte del merito però, invero, è più che di una scrittura efficace del personaggio, della messa in scena della sua duplice realtà. Quest'ultima viene gestita con criterio e attenzione, nella scelta delle frasi come nei passaggi che alternano anche nel giro di qualche secondo la realtà verde e quella rossa; il montaggio è in questo senso particolarmente fluido e si serve spesso di dialoghi per accompagnare e idealmente e in termini di intreccio il singolo passaggio. Si vedano, a tal proposito, tutte le sequenze dallo psichiatra, o meglio dagli psichiatri, dato che Britten ne ha uno per ogni dimensione: entrambi cercano di imporre chiaramente la propria realtà come quella reale nel percorso di psicoanalisi, ognuno con argomentazioni sempre convincenti, e il montaggio se ne serve per far scivolare su di esse un'alternanza che sarebbe altrimenti potuta facilmente risultare troppo marcata e probabilmente fastidiosa.
Gioca con la duplice realtà, rendendosi ad essa funzionale, anche la regia. Per svariate volte durante l'episodio pilota propone movimenti di macchina circolari che partendo dal protagonista che osserva il suo interlocutore arriva a nascondere quest'ultimo e poi a farlo tornare nel campo visivo. Si ha la sensazione sistematica che si stia passando da una realtà all'altra, con un conseguente, seppur temporaneo, smarrimento, capace di contribuire notevolmente a trasmettere lo stato d'animo del protagonista. Ciononostante, tuttavia, il racconto non è mai confusionario ed è anzi, ad onor del vero, forse troppo didascalico, tanto che si sarebbe in tal senso potuto proporre soluzioni ben più accattivanti. 


Al netto di quanto scritto fino ad ora, infatti, il pilot di “Awake” di sicuro non fa gridare al miracolo. Pur rendendosi in parte interessante e cercando con scelte valide di puntare sull'empatia, è assai lontano dal coinvolgere al punto di creare attesa per il prosieguo. Certo il ritmo non è particolarmente sostenuto e adrenalinico, come è giusto che sia puntando la serie non solo sul thriller psicologico, ma anche su quello drammatico, tuttavia si ha la sensazione che non sia solo una questione di tempi lenti ma di una qualche debolezza di fondo. E di sicuro gioca un ruolo fondamentale, nel far passare una simile sensazione, una fotografia così patinata. Se è giustificata in parte dalle due dimensioni potenzialmente irreali, è vero anche che appare spesso fin troppo finta, rendendo posticcio il tutto.
Ad alimentare qualche dubbio è anche l'intreccio. Non riesce a trascinare lo spettatore fino in fondo e suggerisce, a fine episodio, una possibile risoluzione a puntate autoconclusive che sarebbe, almeno ai miei occhi, disastrosa, perché si sprecherebbe così un'idea in potenza assolutamente valida (ma si tenga conto che questo è comunque il parere di una persona che ritiene la trama orizzontale il bene supremo). Non è tuttavia il caso di usare troppo il condizionale scrivendo delle varie ipotesi, considerando il fatto che il pilot lascia aperte svariate possibilità e in termini di struttura delle puntate e in termini di sceneggiatura. Se si seguiranno gli echi del gatto di Schrödinger, se ci si concentrerà invece sul campo prettamente psicologico, se si contrapporranno le due realtà per cercare di capire quale delle due non è reale, o se al termine si butterà tutto sul coma e sul fatto che niente di ciò che abbiamo visto è reale. Tutti elementi che potrebbero delineare un prodotto assolutamente valido come anche, e assai più facilmente, l'ennesimo prodotto da evitare con cura.


mercoledì 22 febbraio 2012

Una Separazione


UNA SEPARAZIONE (JODAEIYE NADER AZ SIMIN)
(2011)




Regista: Asghar Farhadi

Attori: Peyman Maadi, Leila Hatami, Sareh Bayat

Paese: Iran


L'ultimo lungometraggio del regista iraniano non che è un susseguirsi di problematiche e riflessioni a cui non viene data risposta alcuna. Durante la visione ci si interroga in maniera sistematica su tutto quanto accade. Su come ci si dovrebbe rapportare alla parentesi raccontata, come la si dovrebbe affrontare e cosa sarebbe giusto fare. L'immedesimazione è totale. Farhadi mostra una bravura eccezionale nel trasformare in un racconto così empatico uno scorcio di vita reale, non particolarmente affascinante e al quale anzi si farebbe, in altre situazioni, volentieri a meno di assistere. Per l'intera durata, peraltro non indifferente per una pellicola di questo tipo, lo rende addirittura magnetico, ricreando, sequenza dopo sequenza, una realtà tanto vera, tanto umana che non si può non entrare con essa in sintonia. 


L'abilità nella messa in scena, volta appunto a far sì che chi guarda si concentri senza inciampare in distrazioni più o meno volontarie sulle vicende dei protagonisti, diviene palese già con il pianosequenza d'apertura. L'inquadratura è fissa su due dei protagonisti e tale resta, senza stacchi di sorta, per svariati minuti, inquadrandone gli scambi veloci e privi di pause dinanzi al giudice. Nader (Peyman Maadi) e Simin (Leila Hatami) stanno infatti cercando di delineare le condizioni della loro separazione, affidamento della figlia undicenne Termeh (Sarina Farhadi) compreso. Dopo appena qualche battuta il regista ha già proposto la sua prima riflessione, capace da sola di aprire una parentesi e sulla famiglia singolarmente presa e sulla condizione della donna in Medio Oriente, essendo la portata della stessa affatto indifferente: Simin vuole andare via dall'Iran, non vuole più viverci e non vuole che sua figlia cresca all'interno di un'ideologia simile. Appena il tempo di assorbire indirettamente la tematica ed iniziare sulla stessa ad interrogarsi, e Farhadi ne pone subito un'altra, che sarebbe poi il motivo per cui al contrario Nader non ha intenzione di andar via: non vuole lasciare suo padre malato di Alzheimer. Che sia per Nader una motivazione valida, probabilmente la principale, e che sua moglie la affronti con apparente sufficienza non ci sono dubbi; se sia però in parte una motivazione dietro cui nascondere l'egoismo nel non voler lasciare il Paese, non avvertendo il peso che avverte la moglie (e più in generale la donna) di regole retrograde e limitanti, è l'altra faccia della seconda questione posta dal regista. Si percepisce il peso decisionale, la forza dei due quesiti grazie ad una sceneggiatura, ai dialoghi nello specifico, che infiammandosi restituisce la reale portata e quindi la forza di quanto affrontato dai due protagonisti.


La struttura si mostra in questa prima parentesi essenziale, priva di cornici cinematografiche, e ad essa Farhadi resta fedele per l'intera pellicola. Come la sequenza iniziale anche quelle che seguono non cercano nella maniera più assoluta una finzione filmica di facile presa. I tempi registici non si mostrano mai troppo frenetici, né al tempo stesso troppo dilatati; sono invece quanto di più realistico si potesse proporre, a vantaggio dell'obiettivo primo del regista di rendere credibili ancor prima che i personaggi, ancor prima che le dinamiche tra di loro, il peso delle problematiche affrontate. Non le rende troppo semplicistiche, ma nemmeno troppo caricate, appaiono semplicemente reali. La fotografia, dal canto suo, risulta impeccabile nel sintonizzarsi con gli obiettivi diegetico-registici: non è troppo poco cinematografica, soluzione che avrebbe avvicinato l'immagine ad uno stile documentaristico e in tutta probabilità asettico, né al contrario troppo ricercata, quindi non troppo finta. È una realtà così autentica che ci si sente totalmente coinvolti, come se per quei 120 minuti scarsi i loro problemi siano problemi ai quali dedicarsi seriamente, che necessitano di una soluzione. Se quindi fanno bene i protagonisti a comportarsi in un certo modo, se è giusto scegliere in un senso piuttosto che nell'altro, se le colpe siano o meno da ricercare nel singolo, se quanto osservato è il risultato della pressione religiosa e sociale, se e quanto giustificabili siano gli errori commessi, se e quanto siano comprensibili.


Che i dialoghi siano assolutamente predominanti non è quindi un caso. Risultano efficaci in apertura, come risultano efficaci e imprescindibili in qualsiasi altra scena. È quel loro essere così credibili a renderli fondamentali. La gestione degli stessi e quindi degli attori da parte di Farhadi è senza mezzi termini perfetta. Non si avverte mai alcun calo, una qualche pausa di troppo, né una una scelta sbagliata. In termini di tempo sono inattaccabili e gli interpreti, tutti, si mostrano eccezionali nel renderne la forza. Esattamente per questo motivo agli occhi di chi guarda appaiono così interessanti e così degni della propria attenzione, come tali appaiono, di riflesso, ovviamente anche il racconto nel suo complesso e i singoli personaggi. Spesso questi ultimi si ritrovano a discutere tra di loro o a discutere davanti al giudice, ad esporre testardamente le proprie ragioni, tutti impongono i loro punti di vista, i loro argomenti, tanto che diviene quasi impossibile pendere una posizione. Come loro quindi ci si ritrova con mille domande senza però una sola risposta. Solo al termine Farhadi mette a tacere i suoi protagonisti, di fronte all'unica verità inconfutabile della pellicola, lasciando lo spettatore lì, a provare finalmente nel silenzio a darsi qualche risposta.


martedì 21 febbraio 2012

"Life Without Principles": Johnnie To in caduta libera


LIFE WITHOUT PRINCIPLES (DYUT MENG GAM) (2011)




Regista: Johnnie To

Attori: Ching Wan Lau, Terence Yin, Richie Ren

Paese: Hong Kong


Johnnie To è colui che ha dato all'action orientale un volto del tutto nuovo. Guardare alcune delle sue pellicole più riuscite non può non risolversi nel riconoscere al regista cinese una capacità decisamente fuori dal comune, tale da ergere i suoi lavori al di sopra del mare di pellicole proposte ogni anno. Sono il risultato di una commistione ormai rara di cuore e tecnica che rende le stesse estremamente riconoscibili, eleganti e coinvolgenti. Titoli come “The Mission”, “Exiled” e i due “Election” sono in assoluto tra i migliori proposti dal cinema orientale contemporaneo. Proprio “Exiled”, però, è ad oggi l'ultima pellicola in cui si son viste realizzate appieno le potenzialità del cinema di To, dato che ad essa è seguita e segue una preoccupante parabola discendente dalla quale il regista non riesce proprio ad allontanarsi. Gli suoi ultimi lavori, infatti, da “Mad Detective” a “Vengeance”, passando per “Sparrow”, mostrano tutti le stesse identiche caratteristiche, riconducibili in sostanza ad una tecnica superba ma incapace di coinvolgere. 


A distanza di due anni dalla sua ultima pellicola, ci riprova con questo “Life Without Principles”, con cui sembra voler rispondere allo stallo creativo, almeno in termini di risultati, cambiando totalmente genere. È a conti fatti un classico film drammatico, che sfiora la commedia più volte attraverso parentesi in cui si impone con forza quell'ironia tipicamente orientale, che da queste parti rischia di apparire spesso surreale. Un ispettore di polizia, un malvivente ed un'impiegata di banca, tutti alle prese in un modo o nell'altro con questioni economiche, sono i protagonisti dell'ultima fatica del cineasta cinese. Punto di contatto tra gli stessi è l'omicidio, dal movente anch'esso economico, di un usuraio che ha appena prelevato 10 milioni di dollari dal suo conto in banca.

Benché il soggetto avrebbe potuto tranquillamente risolversi in uno dei classici To, quest'ultimo mette in chiaro fin da subito, al contrario, che lo sviluppo sarà ben diverso e che non seguirà affatto gli stilemi classici del suo cinema. Quasi tutta la prima parte, anzi, non distoglie lo sguardo dall'impiegata di banca e dalla sua ricerca ossessiva di risultati professionali, oltreché dall'interazione della stessa con clienti intenzionati ad investire risparmi. È un continuo ripetere frasi preconfezionate sui rischi dell'investimento, sui tassi d'interesse, sui potenziali guadagni e sull'andamento del mercato. Si insiste così tanto su questa parentesi che ci si inizia a chiedere dove il regista voglia andare a parare; si inizia, per la verità, a sperare in una delle sue soluzioni, quelle capaci di far piombare da un momento all'altro sullo schermo una violenza alla quale si è ormai abituati, in cui si alternano coreografie di sangue e proiettili di cui lo spettatore non deve far altro che godere in un rispettoso silenzio. Ma non accade niente di tutto ciò. Si continua a seguire l'impiegata di banca fino alla noia, o comunque fino all'omicidio di cui si scriveva, privo anch'esso di mordente e delineato con una vena ironica della quale la pellicola non farà più a meno. 


La macchina da presa si allontana quindi da quanto raccontato fino a questo momento e inquadra un altro dei tre personaggi: il malvivente. Ne descrive la curiosa personalità e ne segue le varie disavventure fino al punto di contatto con la parentesi narrata in precedenza. Un'operazione del tutto simile, seppur scandita dal ritmo più sostenuto del montaggio veloce, vedrà poi protagonista anche l'ispettore di polizia. Ancora, però, non si capisce dove To voglia andare a parare, se ha puntato tutto su un finale tale da ridisegnare i tratti dell'intera pellicola o se al termine appariranno, stile narrativo e sceneggiatura, rispettivamente funzionale ed efficiente nel suo meccanismo ad incastro. Peccato però che si sia giunti, a questo punto, già quasi nel tratto finale e che alla pellicola non resti che un miracolo per risollevarsi. Non che To non sarebbe capace di farlo, intendiamoci, ma di certo non dimostra in questo caso di saperlo fare. “Life Without Principles” scorre infatti via così com'era cominciato, ossia nell'anonimato più totale.
Al termine la sceneggiatura risulta così debole e insipida che quasi si fa fatica a credere che ad idearla siano stati gli stessi che hanno scritto le pellicole, elencate inizialmente, più riuscite tra quelle dirette dal regista cinese. E se non fosse per una regia come al solito incantevole nel suo essere così tanto calibrata e affascinante, probabilmente si farebbe una fatica anche maggiore a credere che “Life Without Principles” sia una pellicola di Johnnie To. Non ha infatti, oltre alle altre mancanze, neanche alcun elemento con cui coinvolgere lo spettatore, tanto da restare allibiti dalla noia incalzante, perché del tutto estranea al suo cinema: può un suo film piacere solo fino ad un certo punto, può straniare (si veda “PTU”) ma di sicuro non annoia mai in una maniera così totale come quest'ultimo. È probabilmente, ad oggi, il punto più basso della sua filmografia.


Nelle due prossime pellicole tornerà a lavorare con Wai Ka-Fai, sceneggiatore seppur non del tutto convincente comunque originale, ed una delle due sembra tornare sui binari tipici della filmografia del regista. È lecito sperare, quindi. Ma neanche troppo.


lunedì 20 febbraio 2012

Snowtown


SNOWTOWN (2011)





Regista: Justin Kurzel

Attori: Lucas Pittaway, Daniel Henshall, Louise Harris

Paese: Australia


Con “Martha Marcy May Marlene” sono due gli esordi alla regia nel 2011 che raccontano un tema assai ostico e difficile da affrontare come quello dei culti e delle relative dinamiche. Laddove la pellicola di Durkin si concentra maggiormente sul carattere fittizio splendidamente interpretato dalla Olsen, però, l'australiano Kurzel sceglie di raccontare con la sua prima pellicola la storia romanzata, seppur assai fedele, di John Bunting, il peggior serial killer che l'Australia abbia mai conosciuto. Si è reso mandante ed esecutore di 11 omicidi, per i quali attualmente sta scontando altrettanti ergastoli senza possibilità d'appello. Come perno del racconto, sulla base del quale sviscerare poi la ricostruzione di quanto accaduto, il regista australiano sceglie il rapporto tra Bunting (Daniel Henshall) e James Vlassakis (Lucas Pittaway), figlio di Elizabeth (Louise Harris), compagna e moglie dello stesso Bunting. Si sofferma, nello specifico, sulla pressione emozionale esercitata dal serial killer sul giovane James, che vede in lui la figura paterna che non ha mai avuto, in grado di occuparsi della propria famiglia e difenderla quando necessario.


Concentrarsi su questo aspetto si rivela in assoluto la miglior scelta possibile, perché capace di svelare con facilità la struttura portante di movimenti simili, costruita su debolezze che aspettano solo di essere plasmate e guidate attraverso la promessa di uno scopo; uno scopo che in realtà tale non è, essendo solo una giustificazione come un'altra, utile a mascherare le pulsioni omicide del guru di turno, per niente convincenti ma assolutamente credibili agli occhi di gente quasi del tutto vuota, perché svuotata in precedenza o perché mai riempita. Una struttura, quindi, quasi inesistente se osservata senza immedesimazione, di fatto tremolante, appena capace di stare in piedi e appena suscettibile di essere definita tale. Al tempo stesso, però, la più solida sulla quale la gente di cui si sta scrivendo abbia mai potuto contare. È il nulla plasmato col nulla descritto e raccontato da Durkin. La vicinanza tra le due pellicole non è infatti giustificata unicamente dal tema affrontato, ma anche e soprattutto dal modo in cui viene affrontato. Entrambi i registi puntano al far arrivare allo spettatore un nulla permeato dalle sensazioni di coloro i quali in quel nulla vedono tutto (Martha Marcy May Marlene), o di coloro i quali in quel nulla vedono l'unica strada possibile, percorsa anche solo per inerzia (Jamie Vlassakis). 


Se è vero, tuttavia, che per molti versi quello di Kurzel è simile all'esordio di Durkin, è vero anche che se ne allontana per altri. Benché il risultato sia al termine del tutto simile, Durkin punta su soluzioni tecnico-estetiche più ammalianti, alle quali ci si lascia andare quasi inconsapevolmente - le stesse che ammaliano la protagonista. Kurzel, invece, più che pennellare una simile realtà, ne delinea il volto attraverso tratti assai marcati; non si preoccupa di ritrarne l'aspetto più affascinante (per le “vittime” del carisma della personalità portante), ma guarda in faccia il nulla e ne restituisce lo sguardo più glaciale. Il suo racconto appare non a caso spesso asettico, una sorta di successione di eventi senza anima alcuna, in cui parentesi di brutalità inquadrata anche attraverso primissimi piani sembra così normale da provocare solo un normale ribrezzo e non una reale risposta emotiva alla violenza, né più in generale al quadro delineato dal regista. Eppure fin da subito c'è qualcosa, la si avverte chiaramente; una sensazione strisciante e assolutamente non di primo piano alla quale non si dà troppa importanza, ma che non perde tuttavia mai il passo, non resta mai indietro, accompagna al contrario ogni singola sequenza, fino poi ad insinuarsi sotto pelle e a creare un indefinito disagio. Da un punto non individuabile in poi si inizia a far fatica a guardare “Snowtown”, ci si accorge che i respiri si fanno più pesanti e che mandar giù le sequenze diviene sempre più difficile. È l'atmosfera nichilista e distruttiva mesa in scena da Kurzel, che la costruisce con una calma inesorabile ed uno stile quasi documentaristico, servendosi però di fondamentali parentesi in cui ora un ralenti ora un fast-forward appena accennato conferiscono a sequenze in apparenza prive di significato la capacità di far vibrare quel disagio precedentemente insinuato con assoluta consapevolezza sotto la pelle dello spettatore.


Il nulla inquadrato e descritto dall'esordiente australiano non è però solo quello più intimo dei singoli protagonisti. Pur concentrandosi e stringendo spesso sui volti, la telecamera si concede saltuariamente brevi inquadrature in sequenza di alcune zone del paese, deserte e illuminate da luci spente e glaciali quanto il racconto. Il vuoto diviene così, di colpo, il vuoto di un intero paese, che pur descritto in ambienti più ampi e aperti diviene paradossalmente ancor più soffocante, perché più presente e tale da poter opprimere intere porzioni di spazio. Sembra che non ci sia altro, sembra impossibile muoversi in altre direzioni. Ci sono solo angoscia e disagio, tanto che si inizia a sperare che il film finisca, sì da poter uscire da un'atmosfera ormai del tutto sgradevole.
Se però lo spettatore riesce ovviamente ad uscirne, benché resti addosso per un bel po' anche dopo la visione, James no. Lui respira quell'aria per tutta la vita, non può evitarla e non può farne a meno, schiacciato dai ricatti indiretti di Bounting – meravigliosamente interpretato da Henshall - che da una parte si rende indispensabile per la famiglia occupandosi del fratellino, e dall'altra lo attira nel suo vortice di devastazione fino a costringerlo a farne attivamente parte. Non potendo quindi prendere posizione in maniera netta James rimane nel mezzo, nel nulla. Va avanti per quell'inerzia di cui si scriveva in precedenza, restituendo al termine un ritratto capace insieme al resto di bloccare lo spettatore in una visione sfiancante e dalla quale non si vede l'ora di prendere le distanze.


venerdì 17 febbraio 2012

The Man From Nowhere (Ajeossi)


THE MAN FROM NOWHERE (2010)





Regista: Jeong-beom Lee

Attori: Bin Won, Thanayong Wongtrakul, Sae-ron Kim

Paese: Corea del sud

 
Sarà che Johnnie To mi ha abituato fin troppo bene, ma questo thriller/action orientale non mi ha affatto convinto. Se si vuol dirigere una pellicola con una certa dose d'azione, sfruttando di quest'ultima la spettacolarità, che abbia al tempo stesso uno spessore individuabile, bisogna mettersi d'impegno. E seriamente, anche. L'intenzione del regista non è infatti quella di girare un action idiota e ignorante davanti al quale sbavare con una birra in una mano e il telecomando a mo' di arma nell'altra. Tutto il contrario. Il suo “The Man From Nowhere” cerca in maniera evidente di dare spessore alla storia come ai personaggi, soffermandosi quindi anche su parentesi introspettive. La prima parte anzi, al netto della sequenza d'apertura, di azione ne mette in scena davvero poca, puntando molto più sull'aspetto thriller del racconto.

E che si vedano tutti i muscoli, tutti!
 
La pellicola tuttavia, è bene chiarirlo fin subito, non riuscirà a rendersi mai sufficientemente convincente e mostrerà debolezze un po' ovunque. I livelli proposti da To non vengono al termine nemmeno sfiorati, tanto che anche uno dei suoi film meno riusciti, specie se paragonato ai lavori precedenti, come “Vengeance”, è di gran lunga superiore alla pellicola di Jeong-beom Lee. Quest'ultima somiglia, invece, molto più a “I Saw the Devil”, altro action/thriller orientale che, è parere di scrive, si perde per strada in maniera così grossolana che quasi si fa fatica a seguirlo fino al termine. Sembra infatti opinione comune che la riuscita di un film di questo tipo dipenda ormai da quanto si osi in fatto di spettacolarizzazione della violenza senza criterio. Non sembra più necessario preoccuparsi della credibilità e della trama – perché, è bene sottolinearlo ancora una volta, non si sta scrivendo di un action puro e semplice – quanto di stupire, o credere di farlo. Il tutto punta così unicamente ad un climax il cui volto è lo scontro finale tendenzialmente alieno, e per giungervi, per far giungere lì i personaggi, la sceneggiatura non si preoccupa di tutta la parte restante. Non è tanto l'intreccio banale il problema, perché considerato il genere si può anche passarci sopra, quanto la banalità della messa in scena. La ricerca introspettiva, in particolar modo, fallisce miseramente quando la pellicola insiste in maniera esagerata e quindi urticante nel calcare e ricalcare i personaggi, siano essi buoni o cattivi. Un esempio su tutti, la signora a cui la piccola protagonista ruba la borsa: continua, davanti ai poliziotti, a colpire la testa della bambina con la sua borsa senza che loro facciano nulla, perché bisogna delinearne i tratti da piccola fiammiferaia a tutti i costi. Non contenta, quando la picchia il figlioletto, lo allontana subito con una frase così evitabile da far cadere le braccia: “lasciala stare, potresti prenderti qualche malattia”. E qui il film l'abbiamo già abbondantemente perso. Più in generale comunque, si scriveva, tutti i personaggi sono troppo forzati, e come sempre in questi casi, non solo non funzionano ma risultano fastidiosi.

Samara alle elementari

Ciononostante una certa eleganza tecnico-estetica c'è e si vede. È una pellicola orientale, quindi la cosa non sorprende affatto. Anzi qualche scena d'azione non è niente male, quando non si cerca di strafare, come i combattimenti corpo a corpo tra il protagonista e l'unico tra i nemici capace di combattere seriamente. Poca roba comunque, non certo si può poggiare su questi centellinati momenti un'intera pellicola, peraltro di 120 minuti. Al termine, infatti, ci si ritrova a guardarla per inerzia, in attesa che l'eroe, ovviamente intaccato da un passato traumatico, spacchi il culo a tutti. Che poi, pensandoci, è proprio ciò a cui un film del genere dovrebbe puntare, solo che in virtù di quanto scritto fino ad ora, né si annega nell'adrenalina più idiota e ignorante, né si riesce a provare empatia verso quanto accade. “The Man From Nowhere” è esattamente nel mezzo, ossia il posto più inutile dove avrebbe potuto posizionarsi, e il risultato è infatti assai deludente.

Gli aspetti restanti dell'intreccio non sono da meno. Anch'essi banali, ma senza essere capaci di sfruttare lo stereotipo a loro vantaggio. Sequenza dopo sequenza diviene quindi sempre più chiaro che il film non ha nulla da dire, nulla da aggiungere a quanto visto svariate altre volte e nulla con cui smuovere lo spettatore e farlo interessare al racconto.
Ad onor del vero, però, è utile sottolineare un seppur ovvio aspetto, ossia il carattere assolutamente personale della mia opinione sul film. Chiunque infatti sia interessato al genere e quindi a “The Man From Nowhere”, tenga conto che in molti hanno apprezzato “I Saw The Devil”, criticato da me poco sopra, come anche la pellicola di cui si sta scrivendo, il che significa che il problema è in tutta probabilità più che altro mio. Riporto pertanto qui di seguito il link alla recensione, tutt'altro che negativa, di Moderatamente Ottimista, cosicché possiate avere un parere diametralmente opposto al mio e decidere di conseguenza. Sono una persona onesta, Eh?

(Recensione di Moderatamente Ottimista)


giovedì 16 febbraio 2012

"The Walking Dead" - Seconda Stagione (premiere seconda parte)


THE WALKING DEAD - EPISODIO 2X08





Regista: Clark Johnson

Attori: Andrew Lincoln, Jon Bernthal, Sarah Wayne Callies

Paese: USA

-->
Anno nuovo, stessammerda? No, anche peggio. Uno sceneggiatore dovrebbe essere in teoria avvantaggiato da queste pause invernali, che permettono di dividere in due blocchi un'unica stagione. Siamo a Febbraio, e "TWD" si era fermata a fine Novembre. Se la matematica non è un'opinione sono passati due mesi e mezzo. In due mesi e mezzo si ha tutto il tempo di riguardarsi quanto fatto in precedenza, capire gli errori, le debolezze e per contro anche i punti di forza. Eliminare o almeno smussare i primi, quindi, e puntare sui secondi. Evidentemente tuttavia, com'era chiaro a chiunque avesse un paio di neuroni funzionanti anche solo a metà, la prima parte della seconda stagione non aveva punti di forza manco a pagarli, e diveniva pertanto necessario, in questi mesi, rendersene conto e crearne qualcuno. E invece no, gli sceneggiatori di “TWD” cosa fanno? Si rendono conto che di punti di forza non ce ne sono e invece di ingegnarsi fanno la conta. Un ambarabaccicocò con i punti deboli, dato che erano parecchi, e i fortunati assumono il ruolo di punti di forza su cui puntare. Tra una conta e l'altra sarà venuta fuori l'assenza di zombi della prima parte della stagione, infatti la serie di Darabont e Kirkman sembra optare in maniera ancor più decisa per l'eliminazione della figura dello zombie dalla serie. “The Walking Dead” diventerà “The Walking”, e parlerà per l'appunto di gente che cammina per le campagne e per le fattorie e che per puro caso si ritrova in mano delle armi.
Si può, obiettivamente, riprendere dopo 3 mesi una stagione sugli zombi senza uno zombi che sia uno, fatto salvo quello investito in fretta e furia? Va bene che, come si scriveva nelle considerazioni sulla prima parte, la produzione ha deciso stupidamente di fare tagli suggerendo la presenza dei morti viventi solo attraverso il sonoro, ma così è troppo. E cosa resta allo spettatore? Ovvio, le care dinamiche da “Beautiful” a cui ci avevano abbondantemente abituati.


Proprio quelle dinamiche, peraltro, sembrano far parte delle debolezze fortunate, quelle sorteggiate per il ruolo di “punto di forza”. I due ragazzini che si amano son diventati noiosi in tempi record, non li si sopporta già più. "True Story". Il vecchio moralista è entrato nel ruolo in maniera definitiva e totale: non fa più nulla, non parla, se ne sta in disparte. Se non se ne sta in disparte e parla è per rompere i coglioni sul fatto che non bisognava uccidere così tutti gli zombi; cioè, e cosa cristo volevi fare? Portarli in un centro in cui praticano l'eutanasia? Con quell'altro rimbambito che credeva ancora ci fosse una cura e che non prendeva neanche in considerazione la possibilità di ucciderli (quanto volevi aspettare e tenerli in quel fienile a due passi da dove dormivate?). Ok, che ti sta sulle palle Shane, sta terribilmente sulle palle anche a me, e però su, non ammorbare gente impegnata a non fare un cazzo perché di zombi non ce ne sono. A proposito di Shane. Le sue convulsioni sembrano peggiorare a vista d'occhio, ormai non riesce a fare meno di 4 scatti con la testa ogni 2 frasi. Per favore, guardatelo quando urla contro il vecchio moralista: 50 euro se riuscite a seguire sottotitoli e movimenti senza farvi sfuggire nulla.
Ma c'è lui, più di chiunque altro, a distinguersi all'interno della puntata. Il padre del bimbo che parla come un 40enne, lo sceriffo, l'uomo tutto d'un pezzo. Sfodera dei dialoghi in questa puntata che mezza frase sarebbe sufficiente a lacrimare copiosamente. Al di là della retorica un tanto al chilo, si lancia in discorsi profondi per cercare di convincere il rimbambito di cui sopra – che inspiegabilmente, come se lo spettatore fosse cerebroleso, ripete per 2-3 volte la stessa cosa; evidentemente in 2 mesi e mezzo non sono riusciti a buttar giù una sceneggiatura che coprisse tutti e 40 i minuti - a tornare alla fattoria, con risultati scandalosamente meravigliosi: “Sai qual è la verità? Nulla è cambiato. La morte è morte, c'è sempre stata. Sia da un attacco di cuore, cancro, o un Errante, qual è la differenza?”. Nulla è cambiato? Qual è la differenza? Non lo so, brutto deficiente, forse il numero dei morti? Forse la pandemia più totale? Forse il fatto che non si muore semplicemente ma si diviene mostri affamati di carne umana? No, dimmi tu. La sai qual è la verità? È che la serie non va avanti perché ancora si ostinano a non lasciare che tu venga morso, con conseguente proiettile a forarti la testa. 


Che la produzione sia seriamente intenzionata a ridurre all'osso i fondi per questa seconda stagione, se ancora non lo si fosse capito, diviene definitivamente chiaro quando al termine della puntata gli zombi e le teste esplose continuando a non apparire, e vengono proposti, di tutta risposta, sparatorie fra gente viva. Cioè, non solo non si uccidono cadaveri, ma si creano cadaveri e non se ne uccide nessuno. Allucinante.

Spero caldamente che accada qualcosa nelle prossime puntate e la serie si riprenda. La vedo davvero difficile, ma ci spero, perché il soggetto è per un prodotto seriale potenzialmente devastante. Ma se non si riprende allora si guadagnerà tutte, e dico tutte, le offese di questo mondo. E se e quando arriverà il momento io sarò in prima linea.

(Qui le offese alla prima parte della seconda stagione)


mercoledì 15 febbraio 2012

"You Really Should See These" - Day 3: Le Nuove Leve Britanniche


Non potevo non dedicare una delle tre classifiche al filone cinematografico di cui praticamente parlo una volta sì e l'altra pure. Questa terza ed ultima parte di “You Really Should See These” è infatti dedicata alla nuova ondata di pellicole inglesi, accomunate tutte da uno stile quanto mai riconoscibile. È estremamente diretto, viscerale e realistico, pur senza rifiutare una fondamentale finzione filmica che permette a chi guarda di empatizzare e di sentirsi coinvolto da quanto raccontato. Nonostante le similitudini nella gestione tecnica, tuttavia, ogni pellicola risulta sempre in grado di rendersi diversa dalle altre, mostrando oltre ai tratti generali appena descritti altri ben più personali. Peraltro, essendo questa proposta cinematografica relativamente giovane, non sembra almeno per ora destinata a fermarsi, con buona pace di chi, come me, attende con ansia ogni nuova pellicola dai nuovi nomi del Regno Unito.


7) "London to Brighton" (2006)

La pellicola più sporca, insieme a quella di Considine, tra quelle presenti in classifica. Racconta anch'essa la storia di gente ai margini della società, tuttavia Williams più che un drammatico, ci costruisce sopra un vero e proprio thriller, che non ha intenzione alcuna di lasciare da parte la violenza e che al contrario la inquadra in tutta la sua naturalezza. In linea con quanto scritto inizialmente, quindi, è assente qualsivoglia spettacolarizzazione e anzi “London To Brighton” è, per quanto riguarda la messa in scena, estremamente realistico. E forse è questo il motivo principale per cui difetta leggermente in termini di empatia. Fortunatamente, però, niente che possa minarne la riuscita, dettata da un ritmo elevato e dall'intenzione del regista di non fare sconto alcuno.

Tra gli attori anche Johnny Harris (“This is England 86”, “The Fades”) che nell'interpretare ruoli di personalità ai margini o comunque non proprio degne della simpatia dello spettatore è perfetto.


6) "In The Loop" (2009)

Lo stile britannico, diretto e senza fronzoli, applicato alla satira. Iannucci, dopo anni di satira televisiva, tira fuori una commedia politica riuscitissima. Già un paio di nomi sarebbero sufficienti a delinearne le potenzialità, ossia James Gandolfini e Mimi Kennedy, che infatti rendono i loro personaggi assolutamente meravigliosi. Ma a stupire, tuttavia, non è nessuno dei due, o almeno non quanto Peter Capaldi. A lui è affidato il personaggio migliore e più difficile, ma l'attore sembra interpretarlo senza troppi sforzi, rendendolo esilarante.
La satira ai danni delle dinamiche politiche e degli uomini che ne fanno parte è davvero tagliente, grazie a dialoghi velocissimi e caustici, oltreché maledettamente divertenti. In parte anche esagerati, invero, al punto di toccare, insieme all'intreccio, livelli quasi surreali. Se non l'avete visto è davvero il caso che lo facciate.


5) "Tyrannosaur" (2011)

Visto di recente e subito entrato di diritto in questa personale classifica. Dopo aver contribuito a rendere grande il film più riuscito di Meadows con un'interpretazione ottima, Considine prova a mettersi dall'altra parte della telecamera, chiama Peter Mullan- strepitoso - per il ruolo principale e tira fuori un racconto che, come "London To Brighton", sembra non sapere cosa significhi fare sconti allo spettatore. Viscerale, potente e sporco mette in scena una delle probabilmente innumerevoli storie che tratteggiano la vita nelle zone più difficili delle città del Regno Unito. La sua regia, pur non disdegnano momenti filmici, sbatte in faccia un realismo ed una realtà per niente desiderabili e davanti alle quali si preferirebbe voltarsi a guardare da qualche altra parte. Molti giovani registi pagherebbero per un esordio simile. (Qui la recensione)


4) "Boy A" (2007)

Questa fu una delle primissime pellicole a farmi capire che il Regno Unito aveva optato per intrecci il cui obiettivo non era esattamente quello di scaldare il cuore dello spettatore, ma, tutt'al più, di stringerlo per metterne alla prova la resistenza. La storia di "Boy A", infatti, avrebbe tutte le carte in regola per essere una storia emozionante e dai risvolti positivi, ma Crowley queste caratteristiche sembra non averle prese in considerazione neanche lontanamente, tanto che durante la visione si avverte sempre una certa sensazione di disagio, affianco a quella ovvia del protagonista. Quest'ultima è trasmessa alla perfezione da un attore, Garfield (“Non Lasciarmi” - qui la recensione di Frank), che sembra essere nato per ruoli simili e che infatti offre una prova enorme, affiancato da Peter Mullan, che come si scriveva poc'anzi non è certo l'ultimo arrivato.
Gran parte della forza del film, tuttavia, è nel finale, di cui non si scriverà per evitare scomode anticipazioni a chi di voi non l'ha ancora visto. Mi limiterò a dire che è di una potenza indiscutibile e che anche da solo renderebbe meritevole di visione l'intera pellicola.


3) "This is England" (2006)

È la seconda pellicola, dopo “Dead Man's Shoes”, con cui Meadows segna la nuova ondata di proposte inglesi, ed è anche l'unica che verrà distribuita “addirittura” nelle sale italiane, seppur con qualcosa come 5 anni di ritardo, perché comunque qui ci si deve distinguere a tutti i costi. La ricostruzione del periodo è ciò che rende la pellicola così riuscita ed irresistibile; e non si sta parlando meramente di scenografie, ambientazioni e vestiti ma anche e soprattutto di atmosfera. Il regista britannico infatti riesce a raccontare quegli anni trascinando lo spettatore all'interno degli stessi, anche e soprattutto con un fondamentale uso delle musiche. A ciò aggiunge una commistione di ironia e dramma che funziona in maniera perfetta e che avvicina ai protagonisti con una facilità disarmante.

Ha diretto in seguito due miniserie per la tv, “This is England '86” e “This is England '88”, riuscite praticamente quanto il film e identiche ad esso per linguaggio filmico ed empatia.



2) "Hunger" (2008)

L'esordio di McQueen è l'esordio che avrei voluto girare io. La maturità e la lucidità mostrata dal regista londinese sono fuori dal comune. Costruisce un meccanismo in tre blocchi ben distinti ma che al termine non solo non vanno a minare la continuità della pellicola ma rappresentano le colonne portanti della stessa. Ognuna infatti è legata a filo doppio, in termini di intreccio, all'altra al punto di inquadrare e giustificare ognuna la potenza dell'altra. La precisione di Mcqueen è pressoché chirurgica. Al tempo stesso, però, è solo apparentemente fredda, perché capace in realtà di raggiungere esattamente le corde che dovrebbe toccare. Per usare una definizione non mia, ma calzante come poche, “un ghiaccio che provoca ustioni di terzo grado”.
Dietro la macchina da presa, poi, Mcqueen mostra una tecnica davvero invidiabile, girando, tra le altre cose, uno scambio di 17 minuti senza stacchi. E non uno scambio dai tempi lenti e riflessivi, tutto il contrario. Assolutamente enorme. Per far ciò non poteva non servirsi di attori all'altezza e infatti Fassbender, al di là della dieta che lo ha reso carne ed ossa, è praticamente inattaccabile.

Da vedere e rivedere. E poi da vedere di nuovo. (Qui la recensione)


1) "Dead Man's Shoes" (Cinque Giorni di Vendetta - 2004)

Che le pellicole di Meadows in classifica siano due non è certo un caso. È il regista che ha dato di più al nuovo cinema inglese e che è riuscito a farlo uscire dai confini nazionali. Quando vidi "Dead Man's Shoes" rimasi allibito, era la prima volta che osservavo quei tratti registici, che delineano poi la parentesi cinematografica, fortunatamente ben lungi dall'essere chiusa, di cui si sta parlando. 90 minuti che definire potenti sarebbe assai riduttivo. Tanto semplice quando diretto, tanto scarno quanto devastante. Ad oggi il miglior Meadows in assoluto, in grado di unire uno stile quasi antispettacolare alla finzione filmica più coinvolgente; l'empatia è infatti totale e il ritmo non permette di prendere fiato, e non perché "DMS" sia solo azione, ma perché le parentesi più introspettive che si alternano durante la narrazione alle altre riescono a scatenare un'emotività tale che si ci dimentica di farlo.
La regia del cineasta inglese è perfetta, così come la costruzione delle singole sequenze, con un finale che sfrutta il colpo di scena in una maniera tale che il cinema statunitense odierno, in blocco, dovrebbe tornare tra i banchi di scuola e prendere nota. Fanno parte della perfetta costruzione, oltre a regia, fotografia, musiche e montaggio, ovviamente anche gli attori, che offrono una prova scandalosamente ottima. Considine, si sa, è tagliato per fare il matto, ma cosa combina Toby Kebell nell'intepretare il fratello di Richard è impressionante, da un paio di oscar almeno.

Una pellicola impeccabile, semplicemente non le si può dir nulla.
 


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...