martedì 31 gennaio 2012

Take Shelter


TAKE SHELTER (2011)





Regista: Jeff Nichols

Attori: Michael Shannon, Jessica Chastain, Shea Whigham

Paese: USA


Chi non conosce Jeff Nichols, come chi scrive prima di vedere “Take Shelter”, verrà da questa pellicola inevitabilmente spiazzato, foss'anche stato messo in guardia in precedenza. Non si sta affermando senza se e senza ma che il secondo lungometraggio del regista statunitense possa dirsi a tutti gli effetti riuscito. Si potrà al termine anche non apprezzarlo ma di sicuro si resterà per un paio d'ore davanti allo schermo ad interrogarsi disorientati su quanto si sta guardando. Non che Nichols metta in scena una regia che fa della ricercatezza sperimentale una regola, o un montaggio che delinea una struttura filmica atipica, né un intreccio surreale e fuori di testa; destabilizza nella maniera più pacata possibile, ti prende per mano, ti costringe a guardarlo, ti accompagna in un luogo claustrofobico in cui l'ossigeno sembra avere un peso maggiore e un sapore poco piacevole e ti lascia lì, da solo, a fare i conti con qualcosa che resterà indefinito.

L'intreccio, si scriveva, è lineare al punto che quasi si fa fatica a definirlo tale. Ha come protagonista Curtis (Michael Shannon), gran lavoratore, padre premuroso per la sua bambina sordo-muta e marito di una donna, Samantha (Jessica Chastain) che sembra a sua volta perfetta nel dare amore a lui e alla sua bambina. Una famiglia modello, la cui serenità farebbe impallidire il concetto stesso. Da un giorno all'altro Curtis comincia a fare sogni, che sono in realtà incubi, così realistici da farlo svegliare in preda al panico e provocargli reazioni psico-somatiche che non riesce a spiegarsi. E alle quali non riesce a porre fine.


I presupposti sono quelli del thriller, gli sviluppi invece quelli di un film drammatico. È il classico non-thriller che punta a riproporre la struttura del primo attraverso i codici strutturali del secondo, e già riuscire in questo non è affatto semplice (ricorda, limitatamente a questo aspetto, “Il Ritorno”, pellicola russa del 2003). I tempi si mostrano lenti e introspettivi, però non dilatati; puntano a ricostruire un assoluto realismo, lasciando al resto il compito di permeare la pellicola con sensazioni che si insinuano sequenza dopo sequenza nella percezione dello spettatore, fino a trascinarlo in una dimensione che oltre al guscio di realistico ha invero ben poco.
Tra gli elementi attraverso cui Nichols ricostruisce la dimensione di cui si scrive, assume un'importanza primaria il sonoro. Impone immediatamente la sua presenza, ma senza risultare mai di qui in avanti invadente. A volte in crescendo, altre volte sullo sfondo contrasta il realismo della pellicola alimentando una finzione filmica che, proprio perché antitetica al volto più palese del film, disorienta con apparente semplicità. È però durante le parentesi oniriche che il suo ruolo nella costruzione diviene di primissimo piano: i suoni crescono d'intensità, riempiono la scena, fin quasi a coprire tutto il resto, e travolgono con un'inquietudine che al termine resta addosso allo spettatore nello stesso modo in cui resta addosso al protagonista. La gestione di tali parentesi è in realtà eccellente da qualsiasi punto di vista la si guardi. Dalle scelte di sceneggiatura – elementi semplici ma sfruttati e valorizzati alla perfezione – a quelle di fotografia. Quest'ultima, chiaramente, risulta a sua volta imprescindibile, perché tale è nel momento in cui si cerca di ricreare periodi narrativi che allontanino il racconto dalla realtà. Ben più interessante è invece l'uso della stessa al di fuori di tali parentesi; dipinge le inquadrature rivolte a quel cielo che Curtis vede sempre più minaccioso, rendendo particolarmente luminosi i colori, pur senza rischiare il posticcio caricandoli troppo.


Inquieta ovviamente anche l'aspetto narrativo. Per l'intera durata si osserva la discesa inesorabile e angosciante del protagonista verso una condizione che ha conosciuto da vicino e le cui conseguenze ancora influenzano parte del suo carattere. È inquietante, nello specifico, il contrasto netto tra la consapevolezza di Curtis e la sua impotenza, tra il sapere che il luogo in cui sta andando lo distruggerà e l'incapacità di fermarsi. Nichols lo rende in una maniera tale che definirla perfetta non sarebbe sufficiente. Non lo fa, però, ricercando soluzioni spettacolari; al contrario, lo rende normale. È questo il profilo migliore della pellicola: racconta un disturbo reale in maniera reale, lo avvicina all'universo delle cose possibili perché di quell'universo fa effettivamente parte; non è più un semplice passaggio di sceneggiatura, è un rischio concreto. E questa percezione è disarmante.
A renderla ulteriormente tale un Michael Shannon che a quanto pare, si veda “Boardwalk Empire”, è nato per interpretare personaggi simili. È enorme, è credibile e ha un'intensità vocale invidiabile: non poteva dare spessore maggiore al personaggio. Ad affiancarlo la Chastain, che decide di non voler sfigurare neanche lontanamente e che infatti mette a disposizione a sua volta un'ottima prova.

(si sconsiglia di continuare a leggere se non si è visto il film)

Quella di Nichols, quindi, è una gestione assai notevole che delinea uno stile efficace e personale; uno stile che, tuttavia, solo al termine si mostra in tutta la sua forza liberandosi di qualsivoglia restrizione. Nelle ultime sequenze, infatti, sonoro e musiche tornano a dettare i tempi, delineano l'ascesa al climax e rendono agghiacciante l'arrivo di un'apocalisse annunciata. Che sia la tappa ultima della schizofrenia crescente di Curtis, che sia realmente l'avvicinarsi della catastrofica tempesta da lui temuta, che sia una metafora del tracollo economico all'orizzonte, poco importa, perché il risultato resta identico: devastante.*

Take shelter.


*Non ci si soffermerà su quale delle tre interpretazioni sia la più papabile. Nichols si preoccupa di lasciare aperto il finale distribuendo elementi che giustifichino ognuna di esse. Una piccola nota, però: in una delle sequenze conclusive si distingue chiaramente il sonoro del vento usato da Béla Tarr in “The Turin Horse”, anch'esso dal finale apocalittico. Probabilmente una sovraintepretazione, una coincidenza o un riferimento inesistente, ma nel caso contrario il finale non sarebbe più così aperto.


lunedì 30 gennaio 2012

"Touch" - Pilot


TOUCH (2012)





Ideatore: Tim Kring

Attori: Kiefer Sutherland, Titus Welliver, David Mazouz

Paese: USA


Orfana di “24”, serie tra le più seguite di sempre e che ha infatti portato ascolti alla FOX per qualcosa come dieci anni, l'emittente televisiva torna a puntare su Kiefer Sutherland, magari nella speranza che coloro che ancora piangono Jack Bauer tornino ad incollarsi alla poltrona solamente per rivederne il volto. È lui ad interpretare Martin Bohm (protagonista di “Touch”), ex giornalista che ha abbandonato il suo lavoro per dedicarsi al figlio autistico, Jake (David Mazouz); dopo la morte della moglie, nonché madre del bambino, Martin non ha fatto altro che lavorare per permettere al figlio di frequentare scuole adatte alla sua condizione e permettere a se stesso di stargli dietro. Jake, infatti, non mostra semplicemente problemi di comunicazione ma anche comportamentali, non volendo essere in nessun modo toccato e sfuggendo agli occhi del padre, come dei suoi insegnanti, per raggiungere luoghi che sembrano avere un senso solo per lui.

Espressione da interrogatorio di Jack Bauer

Il creatore della serie è un certo Tim Kring, lo stesso che per due stagioni ha fatto sperare in un ottimo prodotto, “Heroes”, crollato poi nel peggiore dei modi, tanto da essere sospeso dalla NBC dopo la quarta stagione. Molti hanno attribuito il calo allo sciopero che ci fu allora degli sceneggiatori, ma in realtà anche successivamente, dopo aver dichiarato che avrebbe ripreso in mano le redini del suo show, “Heroes” ha continuato a perdersi per strada, fino appunto alla sospensione. La sua mano in “Touch", in ogni caso, si distingue chiaramente; si avverte quel carattere “globale” attraverso cui Kring coinvolge nelle sue storie il mondo intero, creando connessioni tra un impiegato statunitense, un giovane arabo, una cantante irlandese ed un uomo d'affari in giro per i vari continenti. Lo aveva già fatto con i poteri dei suoi supereroi, ed ora lo rifà attraverso una leggenda orientale per cui ognuno è legato da un “filo rosso” a gente che deve necessariamente incontrare. E a quanto pare il compito di individuare tali fili è proprio del piccolo Jake.

Fin da subito, quindi, si impone quella seducente potenza narrativa insita in un soggetto così strutturato e non è un caso che Kring la concretizzi e cavalchi immediatamente. La scena passa pertanto senza sforzo alcuno da un paese all'altro, giocando sulla costruzione in crescendo della tensione. Quest'ultima è affidata per lo più alle rivelazioni, inizialmente non riconosciute come tali dai protagonisti, di Jack, che cerca di comunicare con sequenze di numeri che tornano in maniera sistematica. Ora, non è difficile capire dopo "Lost" quanto facilmente elementi e scelte di questo tipo si traducano in coinvolgimento per lo spettatore; è infatti molto semplice restarne affascinati, al punto che si potrebbero seguire per stagioni intere.
Quello dello stereotipo tuttavia, come più volte si è scritto in questa sede, non è in sé un problema se usato con intelligenza ed onestà; nel momento, però, in cui si risolve in qualcosa oltreché di già visto anche privo di personalità, allora risulta al contrario assai deleterio. Se si considera poi uno sviluppo dei singoli passaggi di sceneggiatura, come in questo caso, davvero debole, allora a venirne fuori è un prodotto che non si distingue certo per qualità, non potendo essere sostenuto esclusivamente da un soggetto accattivante solo in potenza. 


Basti pensare, per capire cosa si intende per "passaggi deboli", a Martin che cerca di scoprire cosa il figlio abbia di speciale. Si rivolge alla rete per comprendere una simile rivelazione e trova al primo colpo un sito sconosciuto, creato da un uomo che in 5 minuti gli spiega che il figlio praticamente vede il futuro, e lui accetta la notizia come se gli fosse stato detto che il suo nome è Martin. Sarebbe stato più difficile comprendere le capacità da veggente del figlio, se si fosse rivolto ad un ipotetico studio di consulenze su figli autistici e veggenti. Parentesi simili a questa per debolezza ce ne sono diverse già solo nel pilot – Jack che esce dalla macchina senza che Martin senta lo sportello; l'attenzione ingiustificata al video musicale; la centralinista esperta nel disinnescare bombe arabe e via discorrendo – e mostrano pericolosamente il profilo in assoluto più debole dello stile Kringhiano, ossia quello poco attento alla coerenza della sceneggiatura, che sacrifica in maniera anche grossolana la credibilità in nome dell'emotività e della spettacolarità. Un intreccio fantascientifico non implica infatti la possibilità di mettere in secondo piano quella solidità che lo stesso deve sempre e comunque mostrare.

Non gioca a favore della nuova serie della FOX neanche la scelta di affidare a Sutherland il ruolo principale, essendo come attore non così convincente; non essendolo, meglio, in ruoli che richiedono una gamma espressiva ampia come quella richiesta dal suo personaggio (non è un caso che nel recente “Melancholia” abbia offerto al contrario un'ottima prova). Fortunatamente, nel pilot – e si spera vengo riconfermato nelle puntate successive che andranno in onda a marzo - è presente anche Titus Welliver, caratterista capace di conferire ai personaggi che interpreta fascino e spessore: sarebbe sufficiente la sua espressione in chiusura, al termine dell'intervista, per rendere valida l'intera puntata. 


I presupposti perché si riveli l'ennesimo prodotto precotto ma capace di rastrellare consensi a destra e a manca, ci sono tutti. Resta da capire se e quanta accortezza nella costruzione mostrerà la serie d'ora in avanti, perché nel caso lo faccia potrebbe anche rivelarsi un prodotto piacevole da seguire senza troppe pretese.


sabato 28 gennaio 2012

A.C.A.B. - All Cops Are Bastards


A.C.A.B. (2012)




Regia: Stefano Sollima

Attori: Perfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini,
           Domenico Diele

Paese: Italia


Quello di Sollima è un esordio che si inserisce per molti aspetti tra le classiche proposte del cinema italiano, quello meno riuscito perché legato a strutture che a quanto pare risulta davvero difficile demolire. Eppure dal regista sarebbe stato lecito aspettarsi tutt'altro, essendo l'ideatore di “Romanzo Criminale”, ossia l'unica serie televisiva italiana che può competere con il livello proposto all'estero. Pur essendo anch'essa per certi versi intrappolata nella melma passata di questo Paese, infatti, riesce comunque a rendersi a se stante, coinvolgente e soprattutto filmica, che a conti fatti è poi ciò che realmente manca al nostro cinema, o alla gran parte di esso.
Sollima, comunque, ci prova a non restare ancorato ad un cinema che non funziona e che sa ormai di stantìo, e lo fa già dalle prime sequenze. Come aveva fatto in “Romanzo Criminale”, si mostra subito incline ad un uso prepotente delle musiche; apre con dei titoli di testa sovrapposti a brevi parentesi montate in sequenza, che scandiscono a loro volta la preparazione dei “celerini” sulle note di “Seven Nation Army” dei White Stripes. Il risultato non dispiace, ma alcune debolezze sono già evidenti e il dubbio che vengano riproposte nel prosieguo della pellicola si insinua facilmente tra i timori dello spettatore; e li resterà, in attesa di conferme che puntualmente arriveranno. Di tali debolezze, tuttavia, si scriverà più dettagliatamente in seguito, rappresentando la principale discriminante della riuscita di “A.C.A.B.”.


Tornando per un attimo alla scelta musicale, Sollima sembra non disdegnare richiami al soggetto attraverso la stessa. I tre protagonisti, celerini, si distinguono immediatamente per il loro spiccato accento romano, e nel film ricorre più volte il loro servizio allo stadio, il loro scontro con le tifoserie. La canzone ha acquistato notorietà ulteriore proprio nel panorama calcistico italiano, e proprio quando la tifoseria romana lo utilizzò per la prima volta festeggiando la propria squadra. È una canzone, e in termini testuali e in termini prettamente emotivi, che suggerisce una spinta, una reazione capace di solleticare prima e provocare poi un'adrenalina priva per definizione di razionalità. La stessa di cui parla “Cobra” (Pierfrancesco Favino) quando viene ascoltato in tribunale, chiamato a difendersi dall'accusa di abuso di potere; la stessa che si rivelerà poi uno tasselli principali della struttura contenutistica della pellicola.

Oltre a "Cobra" la telecamera segue i suoi due amici, “Mazinga” (Marco Giallini) e "Negro" (Filippo Nigro), anch'essi alle prese con problemi di carattere più o meno personale; il primo con il figlio adolescente, il secondo con sua moglie e la sua bambina. Non sfugge ai problemi nemmeno il giovane Adriano (Domenico Diele), combattuto tra un passato da anti-poliziotto e un presente da neo-celerino. Sono questi i quattro volti con i quali Sollima decide di mettere in scena un film che potrebbe sembrare in apparenza privo di una tesi chiara ed individuabile; in apparenza perché non è così: lo sguardo del regista è ben più ampio, individua le colpe in uno stato d'animo legato all'individuo, non ad una esplicita fazione.


Nel ritrarre i protagonisti del suo primo lungometraggio, il regista delinea organismi vivi e pulsanti ma del tutto corrotti. Ad insinuarsi nelle loro debolezze sono stati gli istinti più bassi e proprio per questo più facili da seguire. Su di essi hanno costruito loro stessi, con essi hanno riempito un'identità prima evidentemente vuota*. È il riconoscersi nella violenza, e il non riconoscersi senza di essa. Sollima parla di gente che non sa fare altro, che non saprebbe quale altra strada percorrere se non quella adrenalinica e priva di riflessioni; gente che ha bisogno necessariamente di avere una fazione nella quale rispecchiarsi, che abbia regole ben precise che non bisogna far altro che rispettare senza porsi troppe domande - “È un fratello. Questo conta, e basta” -, soprattutto senza porsi troppe domande. Del resto in questi termini “A.C.A.B.” non è che una figura linguistica, una sineddoche, una manciata di volti per descrivere tutti gli altri: è il Paese intero che non vuole farsi domande, perché troppo impegnative; è il Paese intero che sceglie una fazione politica e la difende come un tifoso la sua squadra; è il Paese che sceglie il pacchetto completo di regole ideologiche alle quali adattarsi, scritte da gente con più voglia di usare i neuroni datigli in dotazione.
Svariate volte i tre amici si interrogano, più o meno esplicitamente, sul loro modo di agire, sul ciò che fanno, ognuno a suo modo, ma al termine si ritrovano sempre al punto di partenza, perché, si diceva, non sanno fare altro, non saprebbero come nutrire i loro dubbi e non saprebbero come concretizzare un cambiamento basato sugli stessi. Chiudono gli occhi e vanno avanti. E in questo senso, è bene sottolinearlo, il finale è assai potente.


Contenutisticamente, quindi, il film è solido, oltreché lucido nel portare avanti un discorso forte e difficile da non condividere. Il problema di “A.C.A.B.” è filmico. La struttura narrativa dello stesso è più documentaristica che cinematografica; invece di scavare ancor più a fondo, tirar fuori e far arrivare la parte più viscerale dei suoi quattro protagonisti, si limita a raccontarne l'evoluzione quasi unicamente, per l'appunto, narrativa. C'è una sequenza in particolare in cui quello che Sollima avrebbe in questo senso potuto fare e che non ha fatto diviene palese, ossia quella in cui Cobra e Adriano vanno dagli extra-comunitari che hanno occupato la casa destinata alla madre del giovane celerino. È estremamente cinematografica, e con poche battute e un paio di silenzi viene fuori con forza quell'umanità - da entrambi le parti, nonostante il tunisino non si veda neanche in faccia - che avrebbe dovuto essere la costante della pellicola. Ad avvicinare al documentario il tutto, inoltre, il toccare sistematicamente e cronologicamente tappe reali della violenza che ha segnato il volto del Paese (Raciti, Sandri, la Reggiani e il fantasma della Diaz); in tal modo la finzione filmica ne esce innegabilmente indebolita, tanto che l'accostamento da parte del regista del film a quello di Fuqua, “Training Day”, risulta al termine quanto meno tirato e poco calzante. I limiti di cui si scrive, peraltro, trovano conferma nel passato da documentarista di Sollima – che emerge da una regia in quest'ottica riconoscibile – e nello stile allo stesso modo ben poco cinematografico, per sua stessa ammissione, dell'omonimo libro da cui è tratta la pellicola.
Tale dicotomia risulta chiara anche dai numerosi tentativi del regista di guardare ad un cinema diverso, appunto meno italiano, attraverso le scelte musicali, tutte preponderanti, come la prima, nella costruzione della sequenza. Appaiono un po' troppo “modaiole” e si scontrano con una serietà reale e tangibile a cui non sono adatte, creando delle stonature che si avvertono distintamente.

Al termine, aiutata anche dall'interpretazione ottima di Favino, “A.C.A.B.” si risolve in una pellicola che merita senza dubbio la visione, benché sia interessante più come riflessione sulla violenza quale spirale e necessità, che come opera più strettamente artistica.

* SPOILER (Non è un caso che ai tre protagonisti ci si rivolga sempre e solo con i loro nomi di battaglia, e che l'unico che alla fine si distacca da loro fino a rifiutarli e denunciarli conservi il suo vero nome per tutta la pellicola)


venerdì 27 gennaio 2012

"Mad Dogs" - Prima Stagione


MAD DOGS (2011)




Ideatore: Cris Cole

Attori: John Simm, Marc Warren, Max Beesley, 
           Philip Glenister, Ben Chaplin, María Botto 

Paese: UK

 
In vista della fine della seconda stagione, parliamo oggi della prima, andata in onda agli inizi dello scorso anno sulla BskyB. In pieno stile britannico la serie propone poche puntate, ma se normalmente sono 6, questa volta addirittura si riducono a 4, tanto che la prima stagione potrebbe essere a tutti gli effetti una miniserie, con tanto di finale aperto ma per certi versi anche chiuso. Insomma, la classica soluzione che permette sia di chiudere, sia di continuare. E a quanto pare non solo si è scelto di continuare nel breve termine, ma è stata commissionata fin d'ora già una terza stagione. 


A volerla classificare, si dovrebbe descriverla come a metà strada tra il thriller psicologico e la black comedy, avendo chiari elementi di entrambi i generi. E forse è proprio questo delineare più volti senza al termine assumerne uno chiaro e definitivo a limitare il prodotto. La storia è quella di quattro amici invitati da Alvo, il quinto di loro, a festeggiare il suo pensionamento anticipato. A Maiorca. È lì, infatti, che Alvo vive da diversi anni, che ha una villa da sogno sperduta nei boschi e che sembra aver ottenuto tutto ciò che si potrebbe desiderare. I nostri, tuttavia, si ritroveranno in qualcosa che è ben lontano dalla definizione di vacanza.

Non che dovrebbe esserci bisogno di specificarlo, ma “Mad Dogs” è decisamente uno dei classici prodotti da vedere a cervello del tutto spento. Inizialmente, anzi, dà l'idea di una fiction di terz'ordine coprodotta da Germania e Italia. La fotografia è infatti così luminosa che oltre a rischiare di provocare danni permanenti agli occhi di chi guarda, rende il tutto un po' troppo posticcio e quindi ben poco convincente. Tuttavia siamo a Maiorca, terra di sole, mare e sole, e una fotografia simile è per certi verso giustificata, tant'è che dopo un po' un occhio si riesce – anche un po' per il dolore - a chiuderlo. Passato quindi il disagio dovuto ad un uso simile delle luci, si è in grado a dare un'occhiata anche al resto. La gestione registica e più in generale tecnica, invero, non è affatto male, di certo non è confusionaria e affetta da convulsioni come ci si potrebbe aspettare. Anzi, più di una volta, già nella prima puntata, la serie mostra soluzioni in alcuni casi curiose – si veda il montaggio alternato che accosta le urla di piacere in soggettiva di Lottie e quelle di rabbia di Alvo – e in altri anche particolarmente riuscite – si veda la fine dell'episodio pilota, tra ralenti usati con criterio e passaggi di sceneggiatura assai accattivanti. 


È proprio la fine della prima puntata a dare definitiva concretezza ad un aspetto thriller che da questo momento in avanti si aggroviglia a quello ironico, in una commistione che risulterà più di una volta riuscita ma, purtroppo, svariate altre volte no. Ed è qui il limite della serie. Pur essendo i due elementi agli antipodi, non sono certo rari i tentativi cinematografici anche notevoli di farli convivere, ma far prevalere così tanto l'aspetto serioso in una serie come "Mad Dogs", in cui a funzionare è principalmente l'ironia (la sequenza col piccoletto psicopatico in casa è quanto meno spassosa), non si rivela una scelta troppo intelligente. Si punta, quindi, molto sulle dinamiche criminali, sulla tensione e sugli scontri tra i vari personaggi; scontri che tra l'altro appaiono alquanto forzati, dato che un gruppo di persone comuni che si ritrova da un momento all'altro a fronteggiare omicidi, mafia serba, poliziotti corrotti e trafficanti di droga, difficilmente si metterebbe a parlare delle problematiche dei loro rapporti. Avrebbe funzionato se fossero stati usati più come elemento comico, ma spesso questo non accade.
Allo stesso modo, i dialoghi convincono solo fino ad un certo punto. Funzionano a tratti, ma gli scambi che al contrario non si distinguono particolarmente, né tanto meno risultano accattivanti, sono molti, troppi. Compensano in parte, però, le interpretazioni. Gli attori infatti offrono delle prove di cui non ci si può affatto lamentare; non sconvolgono, ma sono più che sufficienti, e nessuna viene messa in ombra dalle altre. 


Nonostante quanto scritto, tuttavia, la serie resta in piedi. In più di un passaggio a fatica, ma resta in piedi. Certo è assolutamente necessario guardala senza alcuna pretesa, pena cocenti delusioni. Personalmente non mi sentirei di consigliarla, ma se dovesse capitarvi di darle un'occhiata, perché magari ve la siete ritrovata magicamente nel lettore o perché vi è stata spedita per sbaglio, il vostro tempo non si rivelerebbe poi così sprecato.


giovedì 26 gennaio 2012

"Tyrannosaur"


TYRANNOSAUR (2011)





Regista: Paddy Considine

Attori: Peter Mullan, Olivia Colman, Eddie Marsan

Paese: UK


Più volte si è scritto in questo blog, finanche alla ridondanza, di un nuovo cinema britannico capace di mostrare una vitalità inesauribile. Sforna e centra pellicole del tutto simili nello stile, seppur innegabilmente personali, ad un ritmo martellante, tanto che tra di essi di capolavori se ne contano più d'uno. Si è scritto del loro essere potenti, del loro stile più o meno ricercato ma sempre brutalmente diretto, non essendo tuttavia mai spettacolare. Si è scritto del loro essere viscerali. “Tyrannosaur” può piacere, può al contrario non convincere fino in fondo, certo è che conferisce a quel “viscerale” un peso se possibile ancora maggiore. L'esordio alla regia dell'attore reso famoso da Shane Meadows, e che a quest'ultimo ha però con le sue interpretazioni abbondantemente restituito il favore, è praticamente solo cuore. Non che non possa dirsi riuscito sotto gli altri aspetti che interessano la costruzione di un film, ma quella poltiglia di cuore, rabbia e asfissia vomitata sistematicamente dalla pellicola tende a far passare tutto il resto in secondo piano. 


Sarebbe interessante individuare con maggior precisione quali siano i fattori che stanno tratteggiando del Regno Unito un volto simile; tale da spingere più di un regista a mostrare il lato ferito dei suoi protagonisti e sullo stesso ad insistere. Il Joseph (Peter Mullan) di Considine non è diverso. È un uomo che sembra ormai andato a male, esteticamente quanto interiormente. Beve fino a perdere il controllo, e se non beve il controllo lo perde comunque in altra maniera. Oltre al suo cane non ha nessuno, non più. Un giorno come un altro, in preda ad una disperazione dalla quale non prova neanche più a fuggire, si nasconde in un negozio, quello di Hannah.

Affinché sia chiaro immediatamente chi possa essere Joseph, quale sia il suo inferno e quanto possa risultare maleodorante, il regista nel giro di appena qualche sequenza lo inquadra all'esterno di un bar, ubriaco e delirante; il cane non si muove, o comunque non come nei suoi deliri vorrebbe che si muovesse, si sfoga su di lui, lo prende a calci, gli rompe le costole e lo uccide. Difficile pensare che questa del cane sia una una scelta come un'altra; è infatti l'animale più fedele, quello che resta al tuo fianco in ogni caso, l'unico probabilmente che non ha mai fatto da soggetto al verbo “abbandonare”. Il protagonista, ciononostante, gli riserva quel trattamento. Allontana nel peggiore dei modi l'unica cosa che ancora era capace di stargli affianco. Joseph, del resto, ferisce e allontana chiunque, anche se stesso. È ridotto a un cumulo di macerie ardenti, vuole bruciare qualsiasi cosa gli capiti a tiro, vive ormai da anni in cattività. È un essere umano detestabile, che si nasconde impaurito quando il pericolo lo guarda in faccia e lo assale con antitetica ferocia non appena quello gli volta le spalle. Si dispera per se stesso, cerca conforto, sembra pentito, ma qualche ora dopo ricomincia. 


Considine inquadra anche tutto il resto, ciò che c'è intorno a Joseph. E l'aria che si respira, lì, non è meno pesante. È una difficoltà reale – sociale ed economica – che diviene un male esistenziale al quale chi abita zone simili a quella in cui è ambientata la pellicola non riesce a reagire. Lo accetta con rassegnazione e da esso si lascia plasmare e sfinire. Il regista britannico, tuttavia, alza il tiro. Il male di cui parla non è confinato ad una zona, o ad una qualche appartenenza sociale. Attraverso Hannah, infatti, “la voce alta e forte” della pellicola - come l'ha definita lo stesso Considine – diviene anche quella di uno status sociale che sembra immune al problema solo in apparenza e solo perché tiene il suo malessere, per quanto possibile, all'interno delle proprie case. Ma è sufficiente una sequenza, una soltanto, a dimostrare che quel malessere è uno e unico: espressioni differenti, ma stessa potenza distruttiva. Si annida nelle crepe di un umanità che zoppica vistosamente e che non reagisce, anche se potrebbe farlo, anche se potrebbe almeno provarci.
Tyrannousaur”, non a caso, scava in continuazione alla ricerca di un'umanità che per quanto nascosta non può svanire. La cerca sistematicamente in Joseph, vuole accostarla a quel suo essere sgradevole, vuole renderla una spinta verso la reazione. Lo fa già nella scena iniziale sopra descritta: la violenza è seguita dal senso di colpa di un uomo distrutto che riporta a casa un cane morente, il suo. Inquadra quindi quella di Hannah, il cui inferno non ha nulla da “invidiare” a quello di Joseph. Anche lei non reagisce, anche lei si lascia logorare, ma la sua di umanità non va cercata, è palese, tanto da risvegliare lentamente anche quella da tempo sopita di Joseph. Disperazione che aiuta altra disperazione e che a sua volta si lascia aiutare.

Di viali illuminati dal sole e alberi in fiore su cui camminare abbracciati e suggellare la propria rinascita in “Tyrannosaur”, però, non ce ne sono. Il cambiamento qui è doloroso, fa più male di quanto visto prima e i sentimenti tra i due non sono neanche lontanamente sufficienti a renderlo concreto. Il sacrificio richiesto ad entrambi è enorme: è nel volto insanguinato di un Joseph che realizza di poter decidere che può bastare; è nel volto di una Hannah completamente distrutta e nuda al cospetto di se stessa; è nella consapevolezza di aver fatto finalmente qualcosa, giusto o sbagliato che sia: "They all think it, but I do it - that's the difference between you and me and the rest of the world".


Peter Mullan sembra assorbire il personaggio con tutte le sue storture e i suoi dolori – forse perché lui per primo non ha il passato più roseo della storia – al punto di offrire un'interpretazione così intensa e vibrante che la si può solo ammirare in un rispettoso silenzio. Lo stesso andrebbe fatto con l'interpretazione di Olivia Colman, di cui anche solo una parentesi, quella descritta qualche riga più sopra, basterebbe per almeno altre cinque pellicole. E infine Considine, che si mette per la prima volta dietro una macchina da presa e si comporta con un regista dall'esperienza decennale. La sua è una regia calibrata, semplice e diretta, illuminata da una fotografia che rende tanto il gelo quanto il calore di un racconto che ricalca i lineamenti di uno stile cinematografico del quale “Tyrannosaur” entra di diritto a far parte.


martedì 24 gennaio 2012

"Hofshat Kaits - My Father, My Lord"


HOFSHAT KAITS (2007)





Regista: David Volach 

Attori: Roni Aharon, Nitsam Bar, Yonathan Bashayev

Paese: Israele

 
Spesso una pellicola riesce ad essere particolarmente chiara nel comunicare perché si avverte in maniera sensibile la conoscenza in prima persona di quanto raccontato. Ancor più che nell'atteggiamento e nella caratterizzazione dei personaggi, ancor più che nei loro scambi, nell'atmosfera. Quest'ultima da sola rende viva la ricostruzione di una porzione di spazio geografico-temporale ben individuata e individuabile, tanto da immergere il racconto in una dimensione reale e sentita.
David Volach sceglie per il suo primo lungometraggio una famiglia estremamente religiosa, appartenente ad una costola dell'ebraismo che definisce, nel suo fondamentalismo, costole le altre forme di ebraismo. Quasi le definisce, anzi, defezioni dello stesso, perché troppo, nella loro ottica, libere e distaccate dai reali insegnamenti del Torah. Padre (Assi Dayan), moglie (Sharon Hacohen) e figlio (Ilan Griff) vivono una vita dedicata unicamente al loro credo, tanto che il piccolo Menahem già studia all'interno di una scuola fondata su principi ad esso aderenti. Volach è cresciuto in una famiglia con principi ugualmente rigidi. Come il giovane protagonista del suo film, ha assorbito, più o meno forzatamente, dogmi religiosi e di conseguenza comportamentali, fino ad allineare agli stessi ogni aspetto della sua vita. Questo fino ai suoi 22 anni, età in cui decide di abbandonare, non senza difficoltà, il mondo religioso.


Al termine della visione di “My Father, My Lord”, la posizione del regista non solo risulta inequivocabile nella sua invettiva ma anche inaspettatamente forte. Non fa sconti, infatti, nel criticare una chiusura e una rigidità dalle quali, quindi, non si limita ad allontanarsi. Nel farlo, però, non sceglie sequenze plateali, scambi particolarmente mirati, né ritmi che abbiano un certo impatto emotivo sullo spettatore. Al contrario, suggerisce quell'atmosfera di cui si scriveva, delineando con cura e fedeltà uno stato d'animo, quello di coloro che non semplicemente abbracciano la fede, ma che da essa decidono di farsi traghettare, nella quale riversano, svuotandosi, ogni incertezza ed ogni paura e dalla quale si lasciano cullare. Una sorta di limbo che si rende impermeabile alle interferenze della vita attraverso l'osservanza ferrea di dogmi prestabiliti, e nel quale, pertanto, rinchiudersi e rifiutare l'imprevedibile, il dolore e la sofferenza. Ad essere rifiutate, nel contempo, sono però anche quelle sensazioni più genuine legate all'esistenza, quelle che un bambino non può soffocare così “facilmente” come un adulto. 


È proprio la dicotomia tra l'incontenibile spinta all'esplorazione della vita di Menahem e l'assoluta chiusura nei confronti della stessa di suo padre, rabbino, ad essere il fulcro dell'intera narrazione. Una narrazione, come si accennava, fatta di tempi lentissimi e riflessivi. Volach sembra tenerci particolarmente a raccontare il limbo e si serve, a questo scopo, di immagini quasi irreali e dai contorni sfumati. Le luci sono particolarmente forti e contribuiscono a far scivolare in una dimensione filmica assai pronunciata il racconto. Una dimensione apparentemente calda, confortevole e soprattutto protettiva, che tiene a distanza dalla parte più passionale della vita. Ma nel momento in cui un bambino a cui è stato insegnato che gli animali sono privi di anima vede un cane soffrire palesemente insieme e per la sua padrona, difficilmente riuscirà a dare ascolto alla sua parte razionale, non ci riuscirebbe neanche volendo. È quanto accade al giovane protagonista, che inizierà ad avvertire le crepe in un disegno ideologico-comportamentale che appare sempre più debole ma contro il quale continuerà a scontrarsi attraverso le risposte del padre, dogmatiche come gli insegnamenti religiosi seguiti.


Qualche riga più sopra è stato usato un termine: “svuotare”. Il fondamentalismo, nell'ottica del regista, svuota completamente. Annulla. La figura paterna descritta, nel rifiutare la vita, sembra rifiutare anche le gioie legate all'essere padre, le responsabilità e la condivisione. Per l'intera pellicola non fa che pregare, in realtà non dice mai nulla, ripete ad oltranza versi religiosi fino a renderli una cantilena in sottofondo senza mai mostrare alcuna emozione sincera, anche di fronte allo sguardo di una moglie in parte arrabbiata e in parte delusa dal suo non nutrire anche spiritualmente ed emotivamente il loro figlio. Una vita sprecata a concentrarsi su altro, che è poi un concentrarsi sul nulla. Ed è a questo punto che il regista racconta nel dettaglio quanto svelato già inizialmente, strappando a moglie e marito il loro figlio. Nel farlo, però, opta per una scelta di sceneggiatura che pone con forza e in maniera definitiva l'accento sulla sua critica, restituendo una ferocia mascherata da riflessione amara ma poco viscerale.

L'unico difetto palese dell'esordio del regista israeliano e la scelta di affidare il ruolo del rabbino ad un attore non professionista, scelta che si fa sentire più di una volta e peraltro già dalla sequenza d'apertura. Fortunatamente, tuttavia, gli altri due attori forniscono al contrario un'ottima prova, così come lo stesso Veloch nella gestione narrativa e registica. Il risultato è una pellicola di certo non sconvolgente, ma nel suo piccolo potente e lucida.


Merda in pillole #2

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Ed eccoci al secondo capitolo di questo simpatico ed elegante appuntamento, che spero vi aiuti, insieme al precedente, a risparmiare ulteriori preziose ore della vostra in vita. Altre tre idiozie:


- "ENDGAME": 

L'assenza di idee nuove è un serio problema. Non è che sia necessario ogni volta sconvolgere lo spettatore, intendiamoci, ma sarebbe carino e rispettoso nei suoi confronti proporre idee anche solo apparentemente nuove. Magari, non so, vestite in maniera differente, magari con qualche orpello in più, giusto qualche elemento nel suo piccolo più personale e originale, sufficiente comunque a differenziarlo un minimo e a non far ricordare il prodotto a cui si è ispirato. Cose di questo tipo, insomma.
No, a quanto pare la gente si annoia, non vuole sprecare troppo tempo. Vede che qualcosa ha avuto successo e lo vuole rifare. “Endgame” ritrae perfettamente questo simpatico modo di pensare. Cosa fa? Prende Gregory House, gli fa cresce un po' i capelli, glieli schiarisce e lo sposta da un ospedale ad una stanza d'albergo. Gli cambia il campo di genialità: il primo è impareggiabile nella medicina, il secondo è impareggiabile nel gioco degli scacchi; così il primo risolve casi clinici e il secondo si mette a risolvere crimini. Ora, se ha senso che il primo risolva casi clinici essendo il suo campo, non si capisce come diavolo sia possibile che un uomo che sa giocare a scacchi possa risolvere crimini senza uscire dalla sua stanza d'albergo. Ok il ragionamento logico, ma come soluzione appare appena appena stiracchiata. Appena appena.
Le debolezza di House, il Vicodin e la solitudine, divengono, nel caso di Arkady (House 0.5), solitudine e incapacità di uscire fuori dall'hotel. Cos'altro? Anche lui accetta i casi che decide di accettare a seconda di come gli gira, e anche lui ha una parlantina che dovrebbe atterrire. Per farla breve: non è House neanche lontanamente, non ha il suo fascino, la sua disperazione e né i suoi atteggiamenti ben oltre la patologia. È stucchevole, stantìo già dalla prima puntata e insopportabile.
Ovviamente e fortunatamente la serie non è stata rinnovata per una seconda stagione.


- "PERSONS UNKNOWN": 

Giusto perché a noi l'originalità ci piace assai ed “Endgame” non è sufficiente a saziarci, corre in nostro soccorso questo curioso prodotto che si distingue anch'esso per il suo essere unammerda (tutto attaccato). Così come la precedente prende a piene mani da un'altra serie più riuscita e più famosa, ecco che questa creatura di Christopher McQuarrie – si proprio lui, quello de “I Soliti Sospetti”. Ma tocca capirlo, dopo un capolavoro simile, cosa vuoi scrivere ancora? - prende un po' de “Il Prigioniero” (di cui peraltro è stato fatto un remake di recente che personalmente non vedrò, salvo non dovessi trovarmi a corto di serie per questa specie di rubrica), un po' di “Lost” e pure un pochino di quei filmetti deficienti alla "Saw" che ogni tanto vanno in giro. Risultato: persone rapite e portate in un posto sconosciuto in cui vengono tenute prigioniere. Non possono scappare, pena ingegnosi metodi per farli desistere; tra di loro si nasconde gente CHE SA QUALCOSA; svolazzano bigliettini che dicono ad uno di uccidere un altro; e compaiono sezioni segrete all'interno degli edifici – sì, nella cittadella ci sono vari edifici, tipo un ristorante cinese – da cui i cattivi spiano con le loro infinite telecamere – si vomita originalità, proprio – i poveri malcapitati.
I personaggi sono... lasciamo perdere. I colpi di scena sono tali da desiderare che la corrente vada via e non torni mai più , la (de)costruzione della tensione è da manuale scritto da una qualche giovane marmotta e in generale il teatrino diventa inguardabile in tempo zero.
Anche questa non rinnovata, grazie a Dio.


- "FORBIDDEN SCIENCE": 

La chicca. Se le due precedenti serie tv si distinguono per la loro assoluta banalità a questa invece non si può negare, al contrario, un'assoluta originalità. Si potrebbe anzi definire antesignana. La stessa infatti è forse la prima serie televisiva softcore che sia mai stata ideata. Sia chiaro, non è una serie con espliciti contenuti vietati ai minori, quali nudi o scene forti. Questa è proprio una serie pornografica, il cui “intreccio”, tra sbattimenti vari – sì, sbattimenti è inteso esattamente in quel senso – è del tutto accostabile a qualsiasi filmetto hard visibile sui canali regionali di tutto il paese. Tuttavia, c'è un tocco fantascientifico. Lo sfondo infatti è futuristico, la clonazione è una realtà e la gente può scegliere di farne uso. Il più delle volte accade che si cloni qualcuno per poterselo sbattere nuovamente, ma son dettagli.
Tutto punta alle scene hot, chiaramente. Ce ne sono 2-3 a puntata e bisogna rispettarle in maniera categorica. Non si capisce bene se la serie voglia mischiare seriamente la fantascienza e un intreccio semiserio al piacere puramente autoerotico contemporaneo alla visione; si spera caldamente il contrario, ma più volte sembra prendersi un tantino sul serio, nel qual caso si candida come una delle cose più indicibili – al netto delle parentesi di cui sopra, ovvio – che si siano mai viste. E proprio per questo merita la visione.
Non per altro.


venerdì 20 gennaio 2012

"Alcatraz" - Prime Considerazioni

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ALCATRAZ (2011)




Ideatori: Steven Lilien, Bryan Wynbrandt, Elizabeth Sarnoff

Attori: Parminder Nagra, Sarah Jones, Jorge Garcia, 
           Sam Neill

Paese: USA


Per un periodo J.J. Abrams è stato sinonimo di grandi speranze. Tuttora non si è probabilmente ben capito il motivo, se perché capace di vendere i suoi prodotti come grandi promesse o se per meriti reali. Del resto, a conti fatti, il produttore/sceneggiatore/regista/compositore/tutto cosa ha fatto di così sensazionale in fatto di prodotti seriali? Nulla. Aveva ideato “Alias” che è stata forse l'unica a mantenere un certo livello, più che godibile, per tutte le sue stagioni; poi l'esplosione di “Lost”, il telefilm che per tre stagioni è stato davvero un evento ma che col senno di poi non meritava affatto un simile entusiasmo. Del resto è anche abbastanza ovvio, al di là dei meriti tecnici, intendiamoci, riuscire a tenere incollati allo schermo gli spettatori infarcendo ogni singola puntata con un numero infinito di misteri, non preoccupandosi poi di risolverli nelle stagioni successive, se non con soluzioni blande e prive anche solo di un 10% del fascino creato dai misteri stessi; “Fringe” si è fin da subito mostrato piatto e fatto con gli scarti del suo precedessore, con personaggi banali e del tutto anonimi – tranne Bishop, chiaramente – oltreché con soluzioni di sceneggiatura avvincenti quanto una corsa di lombrichi; ed ora “Alcatraz”. Non l'hai ideata lui, ma l'ha prodotta e soprattutto ricopre il ruolo di produttore esecutivo. La sua mano è infatti evidente, tanto che la sensazione di già visto si impossessa prepotentemente e fin da subito dello spettatore. E quando poi si legge che il tuttofare americano ha richiamato direttamente da “Lost” Elizabeth Sarnoff e Bryan Nurk i conti cominciano tristemente a tornare.


Non che il soggetto non sia un biglietto da visita in sé già abbastanza esplicativo. Si legge di un'isola, e si è già preda del terrore più incontrollabile. È Alcatraz. A quanto pare nel 1963 le cose non sono andate come tutti noi sapevamo. Alcatraz non ha chiuso i battenti per i costi elevati. In realtà tutti, guardie e detenuti, svanirono nel nulla. È chiaro. Rebecca Madsen (Sarah Jones) e Diego Soto (Jorge Garcia) sono rispettivamente una agente di polizia e un criminologo che ha dedicato gran parte dei suoi studi al carcere di massima sicurezza. Emerson Hauser (Sam Neil) è il detective che si occupa degli strani casi ad esso collegati, che sa tutto ma che non dice niente; strani perché a quanto pare i vecchi prigionieri hanno cominciato a ricomparire, senza peraltro essere invecchiati. Madsen e Soto entreranno a far parte della task force di Hauser.

Anche solo a scriverla questa sinossi ci si annoia. Come accennato poco sopra, la sensazione di aver già visto tutto è palpabile, a partire dai collage che Abrams si è divertito a fare. Prende l'isola, i presunti spostamenti nel tempo e Hugo Reyes da “Lost”, la poliziotta bionda, che questa volta sembra ancora più intelligente dell'altra, e la trama semi-verticale da “Fringe” (attraverso le indagini autoconclusive sul prigioniero ricomparso del giorno). Al termine “Alcatraz” non ha una sua identità neanche a pagarla.
Ma a risultare incontrovertibilmente banale, più dei singoli elementi, che possono comunque essere sempre riutilizzati all'interno di un complesso originale, è la costruzione, la gestione narrativa e lo sviluppo della sceneggiatura. È comprensibile, anzi normale, che nel creare e dirigere si resti fedeli al proprio stile, ma è anche necessario non scopiazzare quanto fatto in precedenza, specie nel caso in cui precedenza non è stato fatto nulla di buono o quasi. Se la gestione di misteri e colpi di scena attuata in “Lost” ha dopo le prime stagioni cominciato giustamente a stancare, non si può riproporre la stessa costruzione. È sufficiente vedere il presunto colpo di scena che chiude la seconda puntata per rendersene conto: il personaggio sarebbe potuto essere benissimo uno dei losties e nessuno avrebbe fiatato. Addirittura, non ci si crede, è identico l'effetto sonoro in crescendo che accompagna la rivelazione. È un giochino, questo, che ha smesso da tempo di essere divertente, che al contrario è ormai irritante ed è il caso che J.J. la pianti perché davvero non se ne può più. Come non se ne può più di quei numeri che prego Dio vengano banditi da ogni elenco numerico conosciuto e non; per un attimo quasi si è sperato che non si autocitasse e invece lo ha fatto. Quando Hauser compone il codice di quattro cifre, infatti, il primo numero è il 63 ma il secondo, inesorabilmente, è il 23 della sestina lostiana. Sembra che le sinapsi di quest'uomo vengano impiegate esclusivamente per 3-4 elementi e che da lì si debba campare. Una pochezza creativa disarmante. 


I tratti più palesi della banalità di questo nuovo prodotto però, incredibilmente, non sono quelli della somiglianza con i suoi predecessori, ma quelli più generali. Al netto di quanto scritto fino a questo momento, infatti, la sceneggiatura che emerge da queste prime due puntate non mostra neanche un elemento che possa anche solo lontanamente apparire originale, oltre ovviamente all'idea di fondo (e per certi versi neanche quella). Le task force create per risolvere qualcosa di segretissimo sono ormai infinite, i dialoghi triti e ritriti pompati di frasette preconfezionate che a sentirle si rischia un aneurisma - “Welcome to Alcatraz”, ma vaffanculo tu e Alcatraz – allo stesso modo non si contano e i personaggi, con assoluta coerenza, sono quanto di più insipido ci si possa aspettare: l'agente di cui si scriveva, una ragazzina bionda che ha passato la sua infanzia ad aiutare il padre a risolvere casi, che ha appena perso il partner, che guarda caso è stato ucciso da uno dei cattivi speciali e che quindi è così brava che verrà accettata nella squadra; il capo della stessa, scontroso e taciturno, che è poi anche il cattivo, chiaramente; e il buffone battutista-barra-citazionista che si lamenta ogni tre per due di “non essere tagliato per questa vita. Di non riuscire ad essere all'altezza”, rassicurato sistematicamente dalla partner: “È troppo tardi, lo sei già”. Improponibili, a tratti imbarazzanti, più o meno quanto fotografia e scenografie, posticce e per nulla accattivanti. 


Dei primi episodi della nuova creatura della Fox, quindi, non si salva assolutamente nulla. Ha tutte le caratteristiche dei prodotti un tanto al chilo sfornati con la sicurezza che una determinata fascia di pubblico li seguirà. Non è un caso che è già stata fissata e pubblicizzata l'uscita italiana. Al solito, si è sempre pronti a ricredersi, ma perché la serie migliori di qui alla fine della stagione servono e un miracolo e le preghiere di noi tutti perché ad un certo punto non spunti Jacob.


giovedì 19 gennaio 2012

La Talpa

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LA TALPA (2011)




Regista: Tomas Alfredson

Attori: Gary Oldman, John Hurt, Colin Firth, 
           Tom Hardy, Mark Strong

Paese: Francia, UK, Germania


Non si può sempre pretendere una sceneggiatura originale. Non più. Ad oggi la quantità di opere scritte e girate è incalcolabile ed è quasi inevitabile ritrovare durante la visione richiami di ogni tipo. Diviene quindi necessario distinguersi con ogni mezzo a disposizione. Molti sembrano non aver afferrato il concetto, molti altri sembrano far finta di non averlo afferrato, perché fintanto che la minestra riscaldata funziona, perché cambiare? Alfredson al contrario sembra condividere la riflessione e farla propria. Affronta generi che solitamente chiamano regia e ritmi diversi, serrati e capaci di coinvolgere attraverso soluzioni più classiche, con uno stile del tutto opposto. Lo ha fatto con “Lasciami Entrare”, esordio giustamente apprezzato, raccontando una storia con al suo interno la figura di un vampiro nella maniera meno vampiresca possibile. Più un dramma con un elemento sovrannaturale che altro.
E lo ha fatto ora con “La Talpa”, forse il film spionistico con meno ritmo di sempre, benché il soggetto sia quanto di più adatto ad una pellicola di tutt'altri tempi narrativi. 


È la storia di una presunta talpa all'interno dell'Intelligence inglese. A guidare quest'ultima è il c.d. Circus, ossia le sei teste più importanti al suo interno. Dopo un'operazione legata alla talpa, il capo del Circus, Controllo (John Hurt), viene costretto a lasciare il comando e l'Intelligence, e deciderà di portarsi dietro una delle sei teste, George Smiley (Gary Oldman). Quando un anno più tardi tornerà a bussare con insistenza alla porta dei servizi segreti l'ombra della talpa, proprio a Smiley verrà affidato l'incarico di dirigere l'indagine finalizzata a smascherarla.

Regia e stile narrativo mostrano subito il loro profilo migliore. Appena il tempo di introdurre la sequenza dell'incontro in Ungheria, perché avvenga. Un bar con dei tavolini all'esterno, una stradina resa suggestiva da un campo medio che non rinuncia ai suoi protagonisti; i tempi sono lenti, quasi riflessivi, lasciano ai soggetti come allo spettatore lo spazio per osservare e valutare dettagli ed espressioni. L'avvicinarsi del climax della sequenza è suggerito dal sonoro che si fa insieme ovattato di rumori crescenti ed indefiniti, fino all'esplosione dell'azione. Esplosione che in realtà è più un'implosione, tanto è resa poco spettacolare. Non realistica e asettica, al contrario evidentemente filmica, però non spettacolare.
Quello appena descritto è il passato di sceneggiatura più teso dell'intera pellicola, ed è stato diretto con tali ritmi. Si può ben immaginare, di conseguenza, quale possa essere la gestione narrativa della restante parte di una storia che si snoda, da questo punto in avanti, principalmente tra uffici e altri ambienti chiusi. Col senno di poi quella iniziale di Alfredson sembra quasi una palese dichiarazione di intenti, e al termine di certo non gli si potrà in nessun modo non riconoscere di esser stato con essa coerente. Forse anche troppo.


Lo mano del regista è quindi ferma, non si concede mai movimenti di macchina più sostenuti, preferisce al contrario soffermarsi su personaggi e situazioni per il tempo necessario a svelarne tutti i tratti, e anche oltre. Del resto quello spionistico è solo uno sfondo, primi e primissimi piani sono per i caratteri raccontati, per le loro ferite e per i loro rimpianti, per i loro errori e per la loro solitudine. Perfettamente al servizio di tale scelta l'uso del flashback, e più in generale di un montaggio che aggiunge tasselli tanto allo storia quanto ai mosaici caratteriali, con sequenze dedicate anche solo esclusivamente agli sguardi e che non a caso si incastrano e funzionano alla perfezione. A conferire al tutto una carica emotiva fondamentale, senza la quale la pellicola si sarebbe in tutta probabilità risolta in una noia al minimo insostenibile, la fotografia di Hoyte Van Hoytema, che spegne ogni ambiente che illumina pur riuscendo a coglierne gli angoli più caldi, più vivi ed umani. Disillusione e nostalgica malinconia si alternano sullo schermo, rese vive da luci cupe in grado di esaltarne lo spessore, come nella sequenza innegabilmente potente, forse la più riuscita, in cui Smiley racconta il suo incontro con Karla.

A parentesi simili però, inattaccabili e coinvolgenti, si affiancano in maniera sistematica altre che al contrario non hanno affatto la stessa potenza e che appaiono meri esercizi di stile. E a volte neanche quello. Essendo la pellicola basata quasi unicamente sull'empatia, tanto che scoprire chi è la talpa è una curiosità che diviene a tratti marginale, le parentesi non in grado di far passare emozioni trascinano immediatamente lo spettatore fuori dal film. La continuità emozionale è quindi più volte spezzata dall'incapacità del regista di gestire senza sbavature uno stile difficile, in grado di creare una dipendenza che se non soddisfatta può rivelarsi particolarmente deleteria. Una volta entrati infatti in quel turbinio di emozioni di cui si scriveva in precedenza non è per niente gradevole essere costretti ad uscirne per aspettare poi di rientrarci. È difficile inoltre perché tempi così lenti, che Alfredson più di una volta rende davvero troppo lenti, possono facilmente risolversi in una narrazione monotona e quindi del tutto priva di fascino. 


Il finale fortunatamente, però, non rientra tre le cose meno riuscite ed è anzi perfetto nel comunicare ancora una volta con gli sguardi. Inutile sottolineare a tal proposito quanto enormi siano le interpretazioni, tranne forse quella di Tom Hardy, la cui recitazione appare sempre troppo impostata e di conseguenza poco credibile. Un dettaglio, in ogni caso, essendo portati a concentrarsi su un Gary Oldman al quale non si potrebbe muovere alcuna critica anche volendo; su un John Hurt che mette in piedi un personaggio controverso ed estremamente vivo; e più in generale su attori immersi completamente nella parte, tanto che – si consiglia di non andare avanti con la lettura se non si è visto il film – il confronto silenzioso, carico di umanità ma al tempo stesso gelido, affidato agli sguardi di Mark Strong e Colin Firth, tra i due personaggi da loro interpretati è enorme, anche solo come scelta di sceneggiatura. Rischia di far rivalutare, a caldo, l'intera pellicola.


mercoledì 18 gennaio 2012

"Todd And The Book Of Pure Evil" - Prima Stagione

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TODD AND THE BOOK OF PURE EVIL (2010)




Ideatori: Craig David Wallace, Charles Picco, Anthony Leo

Attori: Alex House, Maggie Castle, Billy Turnbull, Melanie
           Leishman, Chris Leavins, Jason Mewes

Paese: Canada


D'ora in poi quando si nominerà la parola “trash” in ambito televisivo non si penserà solamente ai programmi proposti dai canali nazionali, ma anche e soprattutto a questa nuova serie creata tra gli altri da Craig David Wallace, autore del corto omonimo di cui la serie riprende il soggetto, che mette in chiaro fin da subito e in maniera spudorata la ferma intenzione di rispettare tutti gli stilemi del genere.
Non è ben chiaro quanto sia sit-com e quanto serie televisiva classica, avendo elementi di entrambe. I tempi sono quelli tipici di una situation-comedy, dato che la durata media dei singoli episodi è di 20 minuti, come anche l'ambientazione unica, o quasi. Della serie più classica ha invece la fotografia e la struttura narrativa, che è molto più vicina all'idea di continuità lineare che di continuità costruita attraverso singole, seppur non a se stanti, parentesi comiche. In ogni caso non ci si soffermerà a riflettere troppo su aspetti di questo tipo, dato che non prendendosi per niente sul serio la serie in questione, non si intravede motivo alcuno per farlo invece in questa sede.


Per avere fin da subito un'idea anche solo sommaria di quanto lontana sia la serietà da “Todd and The Book of Pure Evil”, nonostante il titolo sia in questo senso già più che sufficiente, è utile introdurre il soggetto: Todd è un ragazzo fondamentalmente idiota; Curtis è il suo migliore amico, evidentemente più idiota. Entrambi non fanno altro che fumare erba e sembrano seriamente intenzionati a sfondare con il loro gruppo metal, i Barbarian Apocalypse. Peccato che del gruppo facciano parte solo loro due e che alla batteria ci sia Curtis, che ha un braccio solo. Spinto da tre singolari figuri, Todd si mette alla ricerca del “Book of Pure Evil” del titolo, un libro in grado di esaudire in modo leggermente distorto i desideri di chi lo possiede.

Diviene immediatamente chiaro che la serie punta all'imbecillità più becera quando Todd trova il presunto segretissimo libro esposto in bella vista all'interno della scuola e ottiene una chitarra elettrica che lo rende un musicista strepitoso. L'effetto collaterale, però, è che suonandola chiunque sia presente perde gradualmente sangue da svariati orifizi – tra cui anche quello anale - fin quasi a perdere la vita. Non poteva essere girato pilot più esplicito. Da questo momento in poi, infatti, viene delineata una struttura a puntate autoconclusive in cui il libro si paleserà agli occhi di coloro che per insicurezze o delusioni sembrano averne bisogno. Si alterneranno quindi sullo schermo enormi organi sessuali parlanti che pietrificano chi li guarda, mostri di grasso assassini, zombi di vecchi musicisti che reclamano vittime nello scantinato della casa di uno degli studenti e altre amenità dello stesso calibro. Non manca, tuttavia, una trama orizzontale, seppur appena accennata e utile principalmente come collante dei vari episodi, riconducibile ad una setta satanica occulta che cerca insistentemente il libro e al fatto che il protagonista sembra destinato a qualcosa di più grande: due cliché che si perdono nel mare di stereotipi banalizzati in maniera estrema nel corso di queste prime 13 puntate, come vuole ogni prodotto trash che si rispetti. 


In linea col genere, ovviamente, anche dialoghi e personaggi. I primi non sono altro che un susseguirsi di scambi che ridicolizzano l'horror e il teen drama, tra urla di terrore e parentesi introspettive rese intenzionalmente stupide. Ogni linea in realtà lo è ed è assolutamente improbabile durante la visione imbattersi anche solo nell'ombra di una qualche scelta semi-seria.
Dei livelli di idiozia del protagonista e di Curtis si è già scritto. Fortunatamente però non sono gli unici a distinguersi in questo senso. Impossibile a tal proposito non citare il custode della scuola, Jimmy – interpretato da quell'autorità nell'ambiente che risponde al nome di Jason Mewes, che non può aprire bocca senza generare ilarità – che tra collezioni di dinamite e scorte di marijuana consiglia il protagonista con discorsi tanto insulsi nel loro voler apparire criptici quanto presumibilmente utili; altrettanto ridicolo l'antagonista, Atticus, che tra una gamma espressiva notevole e atteggiamenti pilotati dalla setta occulta – anch'essa notevole, peraltro – quasi tiene in piedi da solo ogni singola puntata.

Non si può infatti fare a meno di notare che purtroppo il prodotto non riesce sempre a intrattenere come potrebbe. Nonostante rispetti, come si scriveva, alla lettera le linee guida del genere, anche attraverso una certa dose di splatter ignorante e dozzinale, sembra troppo spesso dare per scontata la capacità di divertire degli stereotipi utilizzati. Non è un caso che si sorrida parecchio ma che siano assai rari i momenti in cui si ride di gusto, come nell'undicesimo episodio in cui il musical metal, dominato da Chris Leavins (l'attore che interpreta Atticus), viene messo su in maniera obiettivamente esilarante.
Benché il posticcio sia parte integrante del tutto, non significa che possa un prodotto simile essere effettivamente superficiale. Quel posticcio deve, al contrario, essere studiato e calcolato, così come l'opera nel suo complesso, e “Todd and the Book of Pure Evil” troppo spesso sembra non dedicare originalità e mestiere alla costruzione. 


La serie, a conti fatti, una visione la merita di certo, anche perché non richiede sforzo alcuno. Inoltre è stata rinnovata per una seconda stagione, già andata in onda, e forte del successo ottenuto potrebbe tranquillamente riservare miglioramenti. Nel qual caso si tornerà senza dubbio a parlarne in questo spazio.


martedì 17 gennaio 2012

Hodejegerne

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HODEJEGERNE - HEADHUNTERS (2011)




Regista: Morten Tyldum

Attori: Aksel Hennie, Synnøve Macody Lund, 
           Nikolaj Coster-Waldau

Paese: Norvegia


Roger Brown (Aksel Hennie) è un uomo d'affari, un cacciatore di teste, che sembra avere tutto. Una casa enorme, una moglie bellissima, un lavoro di prestigio. Il suo stile di vita, però, tende ad andare un po' oltre le sue reali possibilità ed è per questo che decide di arrotondare con il furto e la vendita di opere d'arte. Tutto va per il verso giusto, la rete da lui messa in piedi funziona, fino però al momento in cui compare Clas Greve (Nikolaj Coster-Waldau).


Sembra il classico soggetto di un film di genere che guarda al thriller tirato e pieno di suspance. Ed infatti è esattamente così. Fin da subito la voce narrante del protagonista introduce con un tono autocompiaciuto invero già troppo familiare il suo personaggio. Un'apertura che di certo non fa ben sperare in un prosieguo solido e granitico, ma al massimo in una pellicola-baraccone che punta su ritmo, colpi di scena e una certa fondamentale dose di autoironia.
Le intenzioni del regista, tuttavia, sono altre e “Headhunters” si prenderà maledettamente sul serio, come del resto si evince dalle sue stesse dichiarazioni:

«Con “Hodejegerne” vorrei al tempo stesso intrattenere e provocare delle riflessioni. È un film con una storia straordinaria da raccontare, ma non ha paura di farti ridere e di lasciarti col fiato sospeso. È un film di genere che ha l’ambizione di non essere dimenticato non appena hai finito di mangiare i popcorn e sei uscito dal cinema». [Morten Tyldum]

È bene mettere subito in chiaro che questo terzo lavoro di Tyldum più che non aver paura di far ridere, non riesce a farlo, tranne forse in alcune brevi parentesi iniziali, quando guarda caso non si è ancora entrati nel vivo. Ed è bene mettere subito in chiaro anche che le velleità di spessore contribuiranno in maniera disastrosa alla non riuscita della pellicola, dato che il regista norvegese cercherà in tutti i modi di rendere credibile e sentita una sceneggiatura da un certo punto in poi assolutamente improponibile.
Che l'intenzione sia quella di fare sul serio lo si capisce appena dopo le prime sequenze, quando l'atmosfera smette di colpo di essere leggera con l'entrata in scena di Greve. A questa infatti seguiranno una serie di scambi col protagonista che dovrebbero incuriosire e accattivarsi lo spettatore, ma che appaiono in realtà banali e strutturati secondo mille altri scambi visti in mille altre pellicole simili per genere e costruzione. Segue un'inquadratura sulla schiena piena di cicatrici di Greve ed ecco servito il cattivo di turno, interpretato da uno dei pochi aspetti positivi di “Headhunters”: Coster-Waldau, reso famoso dal Jaime Lannester di “Games of Thrones”.


Se fino a questo punto si intravede della banalità, mascherata da una curiosità inevitabile, generalmente scatenata anche da un thriller meno riuscito, quanto accade in seguito è il classico tentativo di tenere incollati alla poltrona attraverso un uso spropositato di colpi di scena. E non sarebbe, volendo, neanche questo il problema principale, perché fintanto che quei colpi di scena, pur nell'esagerazione filmica, risultano credibili, lasciarsi andare al baraccone è comunque un'opzione assai gradevole, anzi. Se, però, quei colpi di scena, così come in generale la costruzione della storia, iniziano a mostrarsi eccessivi, allora il tutto è destinato inesorabilmente a risolversi nella classica spazzatura cinematografica che punta non semplicemente a spegnere il cervello ma ad offenderlo in maniera spudorata. Ovviamente è quanto accade con “Headhunters” che, invero, nella prima parte della fuga non fa gridare allo scandalo, tanto che le soluzioni proposte possono apparire, pur sempre nell'ottica cinematografica di cui sopra, credibili. Inoltre la fotografia fredda e la regia non frenetica che una pellicola di questo tipo comunque avrebbe giustificato, fanno sperare se non in una ripresa almeno in un thriller godibile. E invece no. Tutta l'esagerazione trattenuta in precedenza esplode da un momento all'altro in una sequenza davvero pessima, che è poi anche l'inizio della corsa alla banalità, durante la quale viene svelato il grande disegno, con tanto di complotto, fino alla resa dei conti.

Al termine, come ormai deve necessariamente fare ogni thriller idiota che si rispetti, la voce narrante spiega nel dettaglio cosa è stato architettato per il capitolo conclusivo del racconto, sempre con una dose massiccia di autocompiacimento. Non che sia una soluzione negativa in termini assoluti, ma essendo eufemisticamente abusata, nel momento in cui non ha alle spalle una pellicola per un motivo o per l'altro degna, diviene quanto meno fastidiosa.
Se il regista sperava che il suo film “non venisse dimenticato dopo aver mangiato i popcorn ed essere usciti dal cinema” ha fallito miseramente. E se verrà ricordato per qualche giorno successivo alla visione, sarà probabilmente a causa dei soldi spesi per la stessa. 


Resta a questo questo da capire solamente una cosa, ossia come sia stato possibile che abbia vinto il primo premio al Courmayeur Noir Festival, specie se si considerare che tra le altre pellicole in concorso c'era il ben più interessante “Martha Marcy May Marlene”. Queste le motivazioni: “Il film ci ha soddisfatto dall'inizio alla fine e da ogni punto di vista; lo abbiamo trovato avvincente, divertente, pieno di suspence. Abbiamo pensato che rappresentasse al meglio il genere noir e siamo felici di assegnargli il primo premio”. Con il genere noir non c'entra nulla, non è in grado di divertire ed è pieno di suspance solo per gente che non vede un film dal 1920. Della giuria faceva parte Carolina Crescentini.


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