venerdì 28 ottobre 2011

"The Fades" - Prima Stagione

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THE FADES (2010)
  


Creatore: Jack Thorne

Attori: Iain de Caestecker, Johnny Harris, Natalie Dormer
           Joe Dempsie

Paese: UK



Tra le ultime proposte televisive di un Regno unito in piena attività produttiva, “The Fades” racconta la storia di un ragazzo, diciassettenne, che entra suo malgrado in contatto con una realtà fino a quel momento parallela alla sua, grazie ad un particolare dono che lo accomuna a coloro ai quali, gli “Angelics”, è stata donata la stessa capacità: vedere le ombre, ossia i fantasmi di chi non è riuscito ad ascendere in paradiso dopo la morte. Le ombre (“Fades”, appunto) vagano intrappolate nel mondo dei vivi, senza riuscire ad abbandonarlo e senza essere in grado di interagirci. Almeno fino al momento in cui non riescono a trovare un modo per farlo, che li porterà inevitabilmente allo scontro con i vivi, consistendo, il modo, nel mangiarli e rinascere con un corpo nuovo e oltretutto immortale.
Protagonisti della serie, oltre a quello principale, Paul, sono la sua famiglia, madre e sorella, il suo migliore amico, Mac, ed un uomo, Neil, con il suo stesso dono, che conosce le ombre e la loro esistenza da tempo, tanto da occuparsi di gestire, insieme ad altri come lui, la loro presenza sulla terra. 


Riuscire a vedere i morti non è certo l'idea più fresca della storia, ma mangiare i vivi per rinascere forse un po' lo è. Peccato che già questo suggerisca un buco nella sceneggiatura che sarebbe difficile non prendere in considerazione. Le ombre, infatti, si dissolvono al contatto con composti organici, quindi il fatto che riescano a mangiare gli essere umani è un lieve controsenso, dove per lieve s'intende enorme. Pertanto, o riescono a mangiare senza toccare, oppure qualcosa chiaramente non torna. Su questa base ha inizio una serie la cui provenienza geografico-culturale risulta evidente fin da subito, e non solo per il più che riconoscibile accento inglese, ovviamente, ma per quel taglio in parte ironico che, affiancato a quello drammatico, ne smorza i toni, spesso fino a banalizzarli. Un marchio di fabbrica, il classico humor inglese riscontrabile in altri prodotti britannici come “Being Human” e “Misfits”. È un aspetto, questo, in potenza tanto positivo quanto negativo. Laddove un prodotto, infatti, non possa dirsi particolarmente riuscito soprattutto in termini di sceneggiatura, la sensibile presenza di una tale componente ironica gioca un ruolo fondamentale nel permettere allo stesso di non prendersi totalmente sul serio; nel permettere, di conseguenza, allo spettatore di chiudere un occhio su eventuali incongruenze o aspetti poco riusciti senza troppi sforzi. Un paracadute a misura di cazzata, per intenderci. Nel momento in cui, al contrario, una serie risulti più riuscita e alla ricerca di un'atmosfera maggiormente seria, un'ironia troppo spiccata va a smorzare del tutto quest'ultima e ad indebolire il prodotto nel suo insieme. Purtroppo allo humor le serie inglesi sembrano proprio non riuscire a rinunciarvi, al punto che molti prodotti non risultano efficaci come potrebbero. È il caso del già citato “Being Human” che con una componente ironica meno presente e con qualche accortezza in più nello script avrebbe potuto offrire ben altro.
“The Fades”, invece, appartiene alla prima categoria dato che di certo non è il prodotto televisivo più valido degli ultimi tempi. E il taglio teen non aiuta affatto. Di ragazzini che tra primi amori, scuola, complessi e via discorrendo si trovano alle prese col sovrannaturale non se ne può davvero più e questo aspetto nella serie in questione è quanto mai ingombrante. Vien da sé che il decollo della stessa si presenti perlopiù sotto forma di miraggio, un miraggio che appare più o meno verso la fine della prima stagione, in cui si impone uno scenario apocalittico che se ben cavalcato potrebbe rendere “The Fades” capace di fare più di un passo avanti, fermi restando i limiti di cui si è scritto e si continuerà a scrivere. E d'aiuto, in questo senso, potrebbe essere la componente sanguinolenta che la serie non sembra disprezzare troppo.


A rappresentare un limite è anche l'incapacità di rendere interessanti i personaggi attraverso un'introspezione degna di essere definita tale. Certo, il dubbio che anche con un'adeguata introspezione i personaggi non sarebbero risultati così interessanti resta, dato che effettivamente non hanno alcun fascino. Il protagonista teenager che scopre di essere il prescelto è davvero anonimo, quasi fastidioso. Estremamente fastidioso, invece, è Mac, il suo migliore amico: pedante all'inverosimile, per niente divertente nonostante lo sforzo evidente per cercare di renderlo tale e utile quanto un contorno di caviale ad un secondo piatto vegano. Abbozzati gli atri personaggi, tranne forse Neil - interpretato da Johnny Harris, già visto in altre serie tra cui l'ottima “This is England '86” - a cui viene concessa una profondità leggermente maggiore e che riesce infatti se non a trasmettere empatia almeno a ricordarne il concetto.
Appena delineati anche i rapporti tra gli stessi, tanto che ogni qualvolta la serie prova a proporre parentesi di maggior spessore in termini umani le stesse appaiono superficiali e forzate, lasciando più che altro lo spettatore in attesa che termino e permettano alla storia di andare avanti. 


E poi? E poi c'è il season finale che non ti aspetti. Dopo quanto visto fino alla quinta puntata sarebbe lecito tenere basse le aspettative, invece ci si trova davanti una puntata assolutamente valida. I toni si incupiscono, i personaggi virano verso direzioni più interessanti, il ritmo sembra scoprire le marce successive alla seconda e anche la mano registica appare più attenta. Lo scenario apocalittico di cui si parlava, inoltre, si concretizza in maniera definitiva, restituendo atmosfere coinvolgenti e, in particolare con le ultime inquadrature, prospettive interessanti in vista della stagione successiva. Resta quindi da vedere se e quanto riusciranno a sviluppare in questo senso una sceneggiatura che potrebbe a conti fatti rivelarsi piacevole e magari anche avvincente.


mercoledì 26 ottobre 2011

Recensione "Silvio Forever"

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SILVIO FOREVER (2011)





Regista: Roberto Faenza, Filippo Macelloni

Attori: -

Paese: Italia



La biografia non autorizzata di Silvio Berlusconi è un prodotto che poco aggiunge a quanto già noto sul più grande statista degli ultimi 150 anni, fatti salvi gli ultimi 20. Faenza e Macelloni dirigono la sceneggiatura scritta dai giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo ed è proprio per la presenza di questi ultimi due nomi che ci si poteva aspettare infinatamente di più da questo prodotto.

Che l'intenzione non sia quella di dirigere una pellicola dall'impianto meramente accusatorio nei confronti di Berlusconi è chiaro. La stessa infatti, come una biografia dovrebbe fare, del resto, racconta la vita dell'uomo prima che del politico, restituendo a chi guarda l'avvincente e paradossale  storia di un uomo senza carisma che per anni si è imposto per il suo carisma nell'unico paese civilizzato al mondo in cui avrebbe potuto farlo.


Il documentario si concentra sulle dichiarazioni dello stesso Berlusconi, rendendo il tutto, anche e soprattutto grazie al montaggio, quasi un racconto in prima persona. In assenza della voce originale, perché dichiarazioni scritte o comunque non registrate, subentra quella di Neri Marcorè che cerca di imitarla al meglio, riuscendoci egregiamente. A venir fuori è un ritratto ormai noto, ossia quello di un uomo incredibilmente pieno di sé e convinto dei suoi mezzi, benché in effetti non sia ancora chiaro se siano proprio tutti suoi. Un complesso narcisistico di proporzioni bibliche che influenza la sua percezione della realtà, fino, per dirla con Montanelli, al punto di “credere alle bugie che racconta”. Al fine di delineare una simile personalità, il documentario racconta il personaggio fin dai suoi primi anni di vita, riportando frasi o aneddoti traducibili sia in termini positivi, più che altro da gente non capace di distinguere un caffè da una tazza d'acqua melmosa, che in termini negativi.

Si procede, quindi, tra interviste a persone vicine al protagonista, stralci di intercettazioni, ricostruzioni temporali e ovviamente dichiarazioni dello stesso Berlusconi. A venir fuori è una consistente mole di informazioni che lo ritraggono come una vera e propria icona pop nazionale che cerca di vendere se stessa ogni volta che se ne presenta l'occasione e che su questo modus operandi ha basato tutto il suo successo, essendo cresciuto e formatosi sostanzialmente come piazzista. I due giornalisti insistono particolarmente su questo punto perché è esattamente l'obiettivo ultimo della loro sceneggiatura, limitandosi a sfiorare l'aspetto politico e le conseguenti critiche, negative o “positive” che siano, che in questo senso possono essere mosse al personaggio.
In quest'ottica l'obiettivo prefissatosi “Silvio Forever” lo raggiunge senza ombra di dubbio. Ciò non significa, tuttavia, che in termini assoluti il documentario possa dirsi riuscito. Nel bene o nel male, infatti, del personaggio si parla in continuazione e di informazioni sul Berlusconi personaggio ce ne sono fin troppe. La pellicola diretta da Faenza e Macelloni non approfondisce in maniera particolare e presenta aneddoti e aspetti ormai noti a chi ha l'abitudine di informarsi, foss'anche superficialmente. Non è efficace, né incisiva, né particolarmente interessante e, al contrario, contribuisce ad alimentare la favoletta berlusconiana della persecuzione mediatica e ad ingrandire la mitizzazione del personaggio. Se proprio se ne deve parlare, che almeno lo si faccia in maniera utile.


Di questo documentario, in definitiva, non si sentiva affatto il bisogno. Ci sarebbe da dire ben altro che il paese avrebbe più o meno coscientemente bisogno di sapere, invece di mamma Rosa che parla del figlio come fosse l'uomo più puro mai esistito, della gente che lo venera quasi fosse una divinità, di lui che si erge a uomo con un bagaglio personale “che gli altri se lo sognano”, delle critiche non approfondite e poco circostanziate sulle televisioni, sui suoi rapporti opinabili con gente di dubbia moralità e sui pigiama party senza pigiama. È del tutto assente un discorso capace di andare a fondo, in un senso o nell'altro, e in grado di proporre riflessioni che non si limitino a galleggiare in superficie, anche perché queste ultime non necessitano, proprio in quanto tali, un documentario di quasi 90 minuti per essere portate a conoscenza della gente. “Silvio Forever” aggiunge così poco che, come si può notare, è difficile anche scrivere qualcosa in più al riguardo.


lunedì 24 ottobre 2011

Recensione "Carnage"


CARNAGE (2011)




Regista: Roman Polanski

Attori: Jodie Foster, Christoph Waltz, 
           Kate Winslet, John C. Reilly

Paese: Francia/Germania/Polonia



Riduzione cinematografica della piéce teatrale “il Dio del Massacro” di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice della pellicola, l'ultima fatica di Polanski mette in scena la classica caduta del velo perbenista e ipocrita che generalmente avvolge l'uomo apparentemente integrato in una società apparentemente civile di cui segue regole per (auto)imposizione che farebbe volentieri a meno di seguire. Regole bel lungi dall'essere del vivere civile che, anzi, tendono a sfumare fin quasi a cancellare del tutto quel limite che segna la differenza tra civiltà costruttiva e perbenismo asfissiante.

Per restituire il ritratto di una società simile, la pellicola si serve di quattro caratteri intorno ai quali costruisce una struttura niente affatto stabile che costringerà gli stessi al crollo. Un avvocato senza troppi ostacoli etico-morali, Alan (Christoph Waltz) con sua moglie Nancy (Kate Winslet), operatore finanziario, da una parte e un imprenditore, Michael(John C. Reilly) con la moglie scrittrice, Penelope(Jodie Foster), dall'altra. Dopo l'aggressione del figlio della prima coppia ai danni di quello della seconda, costatagli un paio di denti, le due coppie si incontrano per parlarne e sistemare in maniera civile la questione.


È ovvio che l'unica cosa che davvero mancherà nella pellicola sarà proprio la civiltà. Ed è altrettanto ovvio che il percorso dei protagonisti tenderà al collasso e personale e della bolla nella quale si costringono coscientemente a vivere. Coscientemente perché “Carnage” ha una particolare sfumatura, ossia la consapevolezza di fondo dei protagonisti del loro essere intrappolati in quella maschera pirandelliana che li rende, se possibile, anche più tristi di quanto già non siano. Al contrario, infatti, della borghesia di Buñuel inconsapevolmente denudata ne “L'angelo Sterminatore”, in questo caso sembra, invece, che siano gli stessi protagonisti a cercare un pretesto per strappare quel velo che non riescono quasi più a sopportare. Più volte infatti, durante la pellicola, le coppie sono sul punto di salutarsi e separarsi, ma ogni volta ritornano in casa, quasi a non voler perdere l'occasione di sfruttare quel pretesto. Il ritornare sistematicamente è di certo, in parte, dovuto alla ricerca e all'ostentazione dell'ipocrita civiltà di cui si sta parlando ma, al tempo stesso, sembra appunto che ognuna delle due coppie veda nell'altra un potenziale strumento attraverso cui scatenare quel crollo che in questo senso appare cercato dalle stesse. Un crollo che permetta loro non solo di far scoppiare la bolla che le separa dall'altra coppia, ma anche quella bolla che separa i singoli personaggi dal loro stesso partner. Particolarmente interessante, questo aspetto contribuisce a rendere la prima parte di “Carnage” senza dubbio riuscita e riconoscibile.

A tale divisione in blocchi nell'analisi della pellicola non si può rinunciare, essendo la stessa riuscita solo fino ad un certo punto. Per prima parte, poc'anzi, si intendeva quella pre-crollo, che è anche quella in assoluto più interessante. La gestione degli equilibri ed in particolare della precarietà degli stessi è a dir poco magistrale. Si avvertono fin da subito lo sforzo e la difficoltà dei personaggi che a stento riescono a nascondere la loro reale posizione riguardo quanto accaduto tra i figli: Penelope, puntigliosa e sull'orlo dell'isteria, vorrebbe criticare l'(in)educazione impartita dall'altra coppia al loro figlio, Alan per contro, visibilmente disinteressato, risolverebbe volentieri il tutto come un litigio di poco conto che di certo non necessita di quell'incontro; Michael e Nancy sembrano invece essere maggiormente concilianti, se non altro fino al momento in cui decidono di smettere di esserlo. A scatenarsi è una sorta di guerra fredda a meno di un passo da quella vera e propria, in cui ogni termine, ogni espressione diviene un proiettile vagante potenzialmente suscettibile di dare inizio allo scontro. La gestione di tale equilibrio precario, intenzionata a rendere quell'equilibrio ulteriormente più precario pur non rompendolo del tutto, è senza mezzi termini magistrale. I dialoghi sono perfetti, regia e direzione degli attori anche. Ancor prima che per i dialoghi si sorride per le espressioni e la gestualità che camuffano goffamente l'essere al limite di ogni singolo personaggio, l'essere sul punto di esplodere. Cresce, come diretta conseguenza, l'attesa per quel momento e questa prima parte scorre via come niente.


La seconda parte, ossia il crollo, giunge preceduta da aspettative ben poco indifferenti che vengono, però, in parte deluse. Non viene meno l'attenzione registica, che continua a risolversi in primi piani frapposti tra riprese che inquadrano tutti i soggetti interessati e i loro valzer all'interno della stanza; primi piani che seguono il ritmo frenetico dei dialoghi e trasmettono una dinamicità fondamentale nel racconto di una sceneggiatura simile, ambientata principalmente in un'unica location. Non vengono meno neanche la direzione strepitosa degli attori e le loro altrettanto strepitose interpretazioni, tra le quali svetta quella di una ineguagliabile Jodie Foster.
Restano i dialoghi. Il livello degli stessi in questa seconda parte non è così notevole, di certo non quanto sarebbe dovuto esserlo. La preannunciata esplosione si risolve più che altro in un litigio non troppo interessante, durante il quale emergono idiosincrasie e insoddisfazioni intuite, ognuna di esse, già precedentemente. Gli scambi che le mettono a nudo non sono così scorretti, né taglienti, né particolarmente ricercati. L'unica cosa davvero scorretta è Nancy che distrugge i tulipani. Anche i cambi di prospettiva con conseguenti cambi nelle “alleanze” appaiono più una tappa obbligata perché decisa in fase di sceneggiatura che un'evoluzione naturale delle isterie dei protagonisti.
Venendo così meno l'incisività dei dialoghi, colonna portante della pellicola, la stessa comincia parola dopo parola a trascinarsi e ad apparire forzata, nonostante la breve durata. Un'impostazione sì teatrale trasmette già di per sé un senso di artificiosità che va necessariamente mascherato con un'assoluta naturalezza. Quest'ultima, invece, inizia inesorabilmente a perdere pezzi mostrando quella struttura studiata nel minimo dettaglio che un film, soprattutto un film del genere, non dovrebbe mai mostrare.


Ciononostante è fuor di dubbio che “Carnage” meriti assolutamente una visione. Se è vero, infatti, che l'ultimo prodotto di Polanski si sarebbe potuto risolvere in una commedia da ricordare e che verrà dimenticata, invece, in pochi mesi, è vero anche che vedere commedie di tale livello, pur tutto considerato, di questi tempi è cosa rara.


sabato 22 ottobre 2011

Recensione "The Limits of Control"


THE LIMITS OF CONTROL (2009)




Regista: Jim Jarmusch

Attori: Issach de Bancolé, Tilda Swinton, Bill Murray, 
            Gael Garcia Bernal 

Paese: USA/Giappone



Ennesima pellicola del regista statunitense ed ennesima conferma di quella creatività rivolta all'atipico che caratterizza e rende particolarmente riconoscibile il suo cinema. Questa volta, tuttavia, la differenza è sostanziale. La pellicola non solo propone storie e personaggi per l'appunto atipici, ma propone un'atipicità cosciente di sé, la rende protagonista quale fulcro di una sceneggiatura rigorosamente singolare. Un Jarmusch che parla di se stesso e del proprio cinema, in un prodotto che si pone al tempo stesso come atto d'accusa, difesa e sfogo.

Un uomo (Isaach de Bankolé) in un bagno d'aereoporto effettua esercizi di rilassamento e meditazione. Quest'uomo ne incontra altri due, di cui uno è un interprete. Gli viene descritto un qualche tipo di lavoro, ma con frasi e modi tra i quali si fa fatica a scorgere quella logica che il protagonista, tuttavia, sembra afferrare, seppur in un modo tutto suo. Questo è l'inizio del film, non si può aggiungere molto altro, non perché si rischierebbe di svelare troppo, ma semplicemente perché non c'è nient'altro da aggiungere. 


È chiaro fin da subito quali saranno l'aspetto e il ritmo della pellicola. Jarmusch non mostra fretta alcuna e sembra anzi comunicare implicitamente allo spettatore che la pellicola si prenderà tutto il tempo di cui avrà bisogno, senza preoccuparsi di coinvolgerlo nel caso in cui gli risulti difficile. Appena qualche sequenza più tardi se ne avrà la conferma, con conseguente abbandono di qualsivoglia speranza in cambi di ritmo. Quest'ultimo, decisamente lento, resterà infatti tale fino alla fine, e non fine intesa come parte conclusiva della pellicola ma come titoli di coda. Non sarebbe particolarmente rilevante, quest'aspetto, se non fosse che il regista affianca allo stesso una sua personalissima visione di quello che può definirsi “cinema della ridondanza”. Tutta la pellicola è ridondante. É ridondante nelle musiche, nei dialoghi, nelle azioni, nella regia e nella strutturazione delle sequenze. Ogni frase, ogni gesto dei personaggi che sfilano all'interno di “The Limits of Control”, e 'sfilano' è decisamente il termine più adatto in questo caso, si ripeterà, magari con facce diverse, ma si ripeterà. Gli esercizi di rilassamento fatti dal protagonista li si vede un numero di volte sufficiente a memorizzarli, alcune delle frasi che il protagonista scambia con i personaggi che lo avvicinano, o meglio che gli altri personaggi scambiano con lui, ritornano così tante volte che addirittura vengono anticipate nella mente dello spettatore, come del resto le musiche che accompagnano una sequenza già vista anch'essa varie altre volte, e determinate inquadrature le si attendono prima che puntualmente arrivino.
Ad essere ridondante è anche l'apparente nonsense del contenuto degli scambi, che ogni personaggio filtra attraverso la propria personalità, creando così un'alternanza di monologhi ora sulla musica ora sul cinema, ora sulla biologia molecolare ora sulla percezione della realtà. Tali scambi contribuiscono a confondere ulteriormente una sceneggiatura che già di per sé procede per sottrazione e a rafforzare, inoltre, quell'aspetto grottesco e surreale che domina la pellicola. Aspetto, quest'ultimo, che insieme ai non detti che paradossalmente costituiscono il racconto rappresenta uno degli unici due aspetti capaci di trattenere l'attenzione dello spettatore dal rivolgersi verso una macchia sul muro, valutandola come potenzialmente capace di restituire un quantità maggiore di entusiasmo. 
 

I personaggi e le ambientazioni sono gli unici elementi, o quasi, che spargono qua e là differenze interessanti, seppur solo relative all'estetica e ai loro interessi. Ad essi Jarmusch affida il compito di delineare una sorta di pattern comportamentale, capace di suggerire allo spettatore quale sia la realtà alla quale appartiene il protagonista e dalla quale nasce il lavoro che lo stesso dovrebbe portare a termine. Per rendere, in questo senso, la sensazione di realtà contrapposta ad un'altra, presumibilmente quella che si troverà a subire le conseguenze del lavoro di cui sopra, solamente due scene in 110 minuti, senza le quali la sceneggiatura apparirebbe del tutto priva di un punto d'arrivo.
Fondamentale nella resa del fascino dei personaggi di contorno gli attori chiamati ad interpretarli. I nomi, da soli, già dovrebbero confermare quanto appena scritto: Tilda Swinton, Gael Garcìa Bernal, Joan Hurt, Bill Murray rendono perfettamente i loro caratteri pur avendo solo pichi minuti a disposizione; stessa cosa dicasi per gli altri attori, meno conosciuti ma non per questo meno in parte. Diretti alla perfezione, mischiano atteggiamenti e movenze con una regia assolutamente di livello. Jarmusch infatti, ma questa non è una novità, mostra un tecnica impeccabile che alterna riprese sobrie e rigorose ad altre maggiormente ricercate, offrendo al tempo stesso inquadrature fisse e ben calibrate e ralenti brevi che esaltano un particolare movimento, piuttosto che uno dei tasselli di quella ridondanza di cui si parlava in precedenza.

È lasciandosi trasportare dal surreale, dai non detti, oltreché dai dubbi sulla pellicola stessa che si giunge ad un finale che permette finalmente alla sceneggiatura di palesarsi, mettendo a nudo e l'obiettivo della missione e, nel contempo, l'obiettivo del film stesso. Quest'ultimi, infatti, coincidono perfettamente, perché Jarmush non fa altro che dare concretezza, dare un volto nella finzione filmica a quello che è un problema astratto nella realtà, un problema che in tutta probabilità lo stesso regista sente particolarmente suo. Si sta parlando del peso delle convenzioni sociali, delle regole di comportamento tanto non dette quanto presenti che spingono l'uomo a comportarsi non andando mai oltre determinati confini imposti non si sa bene da chi e sulla base di cosa. Difende se stesso e il suo cinema, difende l'espressione totale e non costretta in catene di sorta della personalità, il non aver paura del non uniformarsi. Per contro, accusa chi invece ha scelto non solo di vivere secondo strutture di vita preconfezionate, più o meno volontariamente, ma che ha addirittura deciso di imporle attraverso giudizi non richiesti. Risponde, il regista statunitense, alla ghettizzazione del diverso con quella stessa ghettizzazione portata all'estremo, rendendola, ancor più che una categoria, una fazione in guerra contro la fazione ad essa antitetica. E ne decreta la vittoria, ancor prima delle ultime più esplicite sequenze, con la frase del protagonista in risposta al nemico:

- “Come diavolo hai fatto ad entrare?”
- “Ho usato l'immaginazione”. 


Un cinema quindi, quello proposto da Jarmusch nella sua ultima pellicola, che spinge fino ad andare oltre, fino a raccontare se stesso. Può non piacere, è anzi assai probabile, ma di sicuro non gli si può negare l'aver centrato con precisione chirurgica, così come il protagonista della pellicola, l'obiettivo prefissato.


giovedì 20 ottobre 2011

Recensione "Hunger"


HUNGER (2008)




Regista: Steve Mcqueen

Attori: Michael Fassbender, Rory Mullen, Larry Cowan
           Liam Cunningham

Paese: UK


Da qualche anno a questa parte il cinema britannico è in palese fermento. Ha proposto e continua a proporre pellicole di indubbia qualità, riconoscibili nello stile, potenti nel comunicare e caratterizzate da una particolare predisposizione all'essere ignorate. Ai vari Crowler, Meadows, Wright e Iannucci si è aggiunto, due anni fa, Steve McQueen. Già noto per le sue opere non cinematografiche - ha al suo attivo mostre di fotografie e sculture, nonché relativi riconoscimenti - il regista nel 2008 si cimenta nel suo primo importante lungometraggio e crea un'opera priva di difetti, vincendo l'European Film Awards per la miglior rivelazione. Anche quel giorno le case di distribuzione erano assenti.

Il soggetto scelto per "Hunger" dal regista britannico è la storia di Bobby Sands, protagonista di una delle parentesi più note della lotta per l'indipendenza della Repubblica Irlandese: Irlanda del Nord, 1976-1981, nella prigione "Maze" di Long Kesh, ai detenuti militanti dell'IRA non viene riconosciuto dal governo britannico lo status di "prigioniero politico". A questo rifiuto seguono proteste di varia natura da parte dei prigionieri, da quella delle coperte a quella dello sporco, finanche a quella della fame. Sarà Bobby Sands (Michael Fassbender), leader dei militanti IRA all'interno della prigione, a proporre e a dare personalmente inizio alla stessa. Morirà di inedia 66 giorni dopo.

Ciò che a McQueen interessa raccontare non è l'IRA, non sono le lotte di cui si rese protagonista, né le dinamiche politiche che traghettarono le stesse. Quello di McQueen è un film su un uomo e sulle sue idee, sulla forza di credere in esse e sulla determinazione nel portarle avanti; su un uomo che ha scelto di prendere una posizione, ma ancor di più su un uomo che quella posizione ha scelto di difenderla.
Il regista inglese ci tiene particolarmente a far arrivare ciò allo spettatore ed è fuor di dubbio che riesca nell'intento. E' probabile, anzi, che ci riesca fin troppo bene, se si considera la pressione emozionale che l'empatia con la sofferenza di Bobby Sands genera nella parte finale della pellicola. Perché ciò sia possibile è necessario creare un racconto che fino a poco prima sia stato tale da avvicinare il protagonista alle giuste corde dell'animo di chi guarda, e McQueen dimostra di esserne in grado. Egli, tuttavia, lo fa sfruttando solo e incredibilmente poco più di 20 minuti, gestendoli da un punto di vista prettamente tecnico in maniera innegabilmente notevole. Non a caso, infatti, la prima parte della pellicola quasi lascia sullo sfondo la figura di Bobby Sands.


È proprio questa gestione atipica dei capitoli nella narrazione a rappresentare uno degli aspetti migliori e più efficaci di "Hunger" ed è su di essa che la presente analisi si concentrerà.

Come accennato poco sopra, colui che solo in seguito diverrà il protagonista, inizialmente non è che un altro prigioniero, tanto che la telecamera per una buona parte della pellicola decide di soffermarsi e raccontare la storia di altri due militanti dell'IRA, catturati e rinchiusi in quella stessa prigione. È infatti seguendo la prigionia di Davey Gillen e Gerry Campbell che McQueen descrive il contesto all'interno del quale nascerà e si rafforzerà la scelta di Bobby Sands. In questo senso il regista usa il suo strumento alla perfezione; mette in primo piano la situazione generale nella quale si trovano i prigionieri, sì da servirsi, più avanti, del peso della stessa per appesantire il fardello decisionale sulle spalle di Bobby Sands e permettere a chi guarda di realizzare la reale portata delle motivazioni che lo condurranno alla drastica decisione di lasciarsi morire di fame.
Questa prima parte è cruda e sporca; come lo nocche sporche di sangue rappreso sulle quali si sofferma la telecamera, le nocche di un secondino il cui picchiare e torturare i prigionieri ormai sembra essere routine. McQueen non fa sconti nello sbattere in faccia alla spettatore la violenza; non la evita, non la nasconde, al contrario la cerca, vuol farla sentire, la rende reale. E' in questa situazione, a metà tra il sudiciume dovuto alle proteste delle coperte e dello sporco e la violenza, anche psicologica, all'interno della prigione, che matura la consapevolezza del leader, quella di dover prendere posizione per l'ennesima volta, di doversi muovere per cambiare il corso degli eventi.

Si giunge così al secondo periodo della pellicola, quello a cui McQueen affida il compito di restituire allo spettatore un ritratto di Sands che sia il più umano possibile, un ritratto attraverso cui delineare quelle motivazioni concrete ed emozionali che spiegheranno, a loro volta, il protagonista e le sue scelte. Il modo in cui il regista britannico costruisce e gestisce questa parte centrale è tecnicamente superbo: 22 minuti di dialogo, di cui 17 con camera fissa, senza stacchi, immersi in una fotografia stupenda che sfrutta ombre e tagli di luce. Lo scambio vede protagonisti Bobby Sands e il parroco della sua città, al quale il primo comunicherà la decisione di mettere la sua "vita in prima linea", dando inizio allo sciopero della fame.
Fin da principio il parroco sembra sapere cosa Bobby Sands gli dirà, infatti la prima parte del confronto vede scambi veloci e diretti su argomenti di poco conto, volti a ritardare l'argomento di discussione principale. Quando però ciò avviene, anticipato da attimi di silenzio, il tono del confronto diviene immediatamente più drammatico ed ogni parola acquista un peso fino ad allora quasi inesistente. Al termine, e come pochissime volte accade nel cinema, una parentesi così breve risulta essere ben più che sufficiente a dare spessore e a riempire di umanità il protagonista, tanto che la prospettiva verso ciò che si sta guardando cambia radicalmente.


Con la stessa lucidità mostrata fino a questo momento, il regista inglese, dopo la quasi totale assenza di dialoghi nella prima parte e dopo il fiume di scambi nella seconda, torna a ridurre le parole all'essenziale. In questi ultimi 20 minuti della pellicola, infatti, la telecamera riprende a comunicare quasi esclusivamente attraverso le immagini. Il risultato sembra una testimonianza video degli ultimi giorni di Sands, del tutto priva di cornici cinematografiche e, quindi, estremamente realistica. Uno sguardo freddo ma non per questo asettico che esplora gli occhi di un uomo nei suoi ultimi giorni di sofferenza, ossia l'unica cosa umana che gli è rimasta, dato che il resto del corpo, a seguito del mancato nutrimento (e, nella realtà, della dieta a cui si è sottoposto Fassbender) è ormai ridotto a carne ed ossa. McQueen si concede un'unica ricercatezza registica, ma che da sola vale tutto il film: Bobby Sands è a letto, quasi incapace di muoversi, ormai consapevole della sua morte; la telecamera lo guarda dall'alto, volteggiando come un corvo in attesa che il corpo si faccia cadavere. La sequenza è potentissima ed è la punta di un'ultima parte assolutamente empatica, cruda e dolorosa.

Come è ovvio che accada con personaggi di tale spessore, la perfezione interpretativa assume un'importanza primaria, nonché irrinunciabile. Michael Fassbender ("Inglorious Basterds", "300") sembra rendersene conto, dato che mette a disposizione una prova strepitosa. Si è sottoposto ad una dieta che gli ha "permesso" di perdere peso fino a livelli impressionanti, tanto che spesso, durante la visione, si fa fatica ad osservarlo senza soffrire con lui. Ha vinto il premo per la migliore interpretazione al British Indipendent Film Awards, al Chicago International Film Festival 2008, al London Critics Circle Film Awards 2009 e al BIFA 2009. E' il minimo.
Degna di nota anche l'interpretazione di Rory Mullen, che interpreta il prete. Ha appena 20 minuti per rendersi convincente e rendere di conseguenza convincente il suo personaggio. A lui, però, ne bastano giusto un paio. Dopo le primissime battute fa suo quel parroco umano ma anche cinico ed irriverente, rendendo lo scambio con Bobby Sands e più in generale la parte centrale, vivo, intenso e cinematograficamente stupendo.


"Hunger" non è un film su un'ideologia di massa, su una lotta per l'indipendenza, né un'opera che simpatizzi per l'una o per l'altra parte. "Hunger", come accennato inizialmente, è un film su un uomo, sulle sue convinzioni, giuste o sbagliate che siano, sulla coerenza con se stessi, sul coraggio di seguire se stessi. E in questo senso la pellicola è maledettamente riuscita.


lunedì 17 ottobre 2011

"Strike Back" - Recensione


STRIKE BACK  (2010)




Regia: Daniel Percival

Attori: Richard Armitage, Andrew Lincol, 
           Philip Winchester, Sullivan Stapleton

Paese: UK



Quando parlavo di serie pessime intendevo esattamente serie televisive come “Strike Back”. Pur essendo un prodotto relativamente giovane, è infatti appena alla seconda stagione, in corso, purtroppo, dato che ancora non l'hanno sospesa, si è già distinta per la sua estremamente scarsa qualità.

La storia è molto originale. Narra le vicende di un super soldato, John Porter, ingiustamente costretto a lasciare l'esercito e il suo ruolo di tutto rispetto all'interno dello stesso, dopo una missione in Afghanistan risoltasi non nel migliore dei modi. Salto temporale: 7 anni più tardi lo ritroviamo a fare il guardiano nel parcheggio della sede della sezione per cui lavorava, prima di essere ingiustamente incastrato (lo ripeto perché è un elemento troppo fresco per non essere ribadito). Chiaramente solo, depresso, lontano dalla propria famiglia che non vuole più avere a che fare con lui, o quasi, specie la figlia dal cuore infranto da una figura paterna assente. Il nostro, tuttavia, continua ovviamente ad allenarsi, fino a che un giorno, richiamato dall'esercito che si ritrova ad aver bisogno di lui, rientra più forte di prima a bucherellare gente, verso il suo riscatto. Roba, insomma, mai vista sullo schermo. Già il solo raccontarla apre finestre su mondi inesplorati. 


Una trama con tali presupposti abbassa notevolmente le aspettative, ad un livello tale per cui non si rischia, o non si dovrebbe rischiare, una qualsivoglia delusione. "Strike Back", invece, centra con precisione e puntualità assai invidiabili l'obiettivo di scendere ben oltre quel livello. Già dopo i primi 3 minuti, scarsi, del pilot il disastro si appropria prepotentemente della mente dello spettatore quale unico e solo scenario possibile: la squadra scelta per la missione incriminata entra in elicottero nel territorio nemico sulle note inspiegabilmente festaiole di “19-2000 (Soulchild remix)” dei Gorillaz e l'impavido John pensa di comunicarlo ai soldati nella maniera più idiota possibile: “Signori, benvenuti nella repubblica socialista irachena!”. In teoria sarebbe sufficiente, ma non per ”Strike Back”. Alla frase seguono infatti gli “yuu huu” dei soldati ormai paurosamente galvanizzati, in tutta probabilità convinti che l'Iraq fosse un parco divertimenti con il più grande Laser Tag del medio-oriente. Senza menzionare la frase, mi si passi l'espressione ben poco formale, estremamente cazzuta con cui il Maggiore Pemberton saluta i soldati poco prima della partenza: “Buona caccia, ragazzi. Ci rivediamo a colazione”. Falso, ne rivedrà giusto un paio.

La linea generale della serie resterà questa per tutta la prima stagione, composta, come la maggior parte delle serie inglesi, da 6 puntate. Le missioni successive saranno come da tradizione impossibili per chiunque altro il cui nome non sia John Porter o Jack Bauer (ciò che ha fatto lui in 192 puntate di “24” non l'ha fatto neanche neanche il Padreterno. Se avesse avuto lui ben 7 giorni per creare il mondo, ora saremmo in grado di muoverci a velocità superiori a quella della luce. A Piedi. Senza distorsioni spazio/temporali di sorta. Ma questa è la storia di un altro supereroe). Dall'Iraq si passerà all'Africa e poi ancora in Afghanistan, e John Porter cambierà il volto di tutte e tre le nazioni, facendo passare la guerra in secondo piano e mettendo se stesso al primo. Le frasi ad effetto come quelle citate in precedenza, tipiche dell'americanismo più becero, non mancheranno, più in generale i dialoghi si assesteranno su un livello medio-basso e, cosa peggiore, la serie si prenderà tremendamente sul serio.

A prendersi tremendamente sul serio, purtroppo, sarà anche Richard Armitage, l'attore che interpreta il protagonista. Gioca un ruolo anch'egli fondamentale nella non riuscita della serie. La sua recitazione, infatti, semplicemente non può essere definita tale, essendo il risultato di una gamma di espressioni completamente fuori contesto e per nulla convincenti. Quando, per esempio, dovrebbe assumere un'espressione decisa e sicura, opta per quella di uno che non ha capito assolutamente nulla ma che finge il contrario (immagine a sinistra). Menzione a parte, invece, merita l'acconciatura che sfoggia dopo il salto temporale di 7 anni. Si spera per lui che quella fosse una parrucca, perché altrimenti non dovrebbe far crescere i suoi capelli per nessun motivo al mondo (immagine a destra).


Ora, è sufficiente cercare in rete quale sia la risposta del pubblico a "Strike Back" per trovarsi davanti a valutazioni medie che oscillano tra il 7,5 e l'8,5 (Imdb, generalmente attendibile considerato il bacino di utenza assai elevato, gli regala un 7,8 di tutto rispetto). Come lo spettatore possa apprezzare una cosa del genere, e ancora di più come abbia potuto apprezzare per addirittura 8 stagioni “24”, è francamente inspiegabile. La ricerca di prodotti non impegnativi che aiutino l'organo cerebrale a spegnersi per qualche ora è comprensibile. Anzi, è ciò che si cerca quando ci si rivolge ad una serie televisiva, in parte per i motivi spiegati nel post precedente (link). Ciò che, al contrario, risulta incomprensibile è la totale assenza di filtri critici che permette alla gente di divorare qualsiasi prodotto gli si pari davanti e, cosa ben peggiore, di apprezzare e difendere le discariche televisive in questione.
Ci si potrebbe sforzare di cercare attenuanti, quali il livello, basso, dell'offerta che porta ad accontentarsi, prima e ad abituarsi, poi e la pigrizia, che si risolve nel non impegnarsi neanche minimamente nella ricerca di prodotti più validi. Per la serie “In tv c'è X. Guardo X”. 'Ci si potrebbe sforzare' perché in realtà attenuanti non sono, o comunque lo sono solo in parte. Se è vero, infatti, che molti prodotti validi vengono trasmessi ad orari improponibili, è vero anche che altri, al contrario, vengono trasmessi in prima serata. E nel momento in cui ci si trova davanti anche un solo prodotto ben costruito, maturo e valido, automaticamente viene registrato un livello diverso, un livello più alto, che dovrebbe condurre all'incapacità di scendere nuovamente al di sotto di quel livello, o al farlo solo fino ad un certo punto. È così che funziona o dovrebbe funzionare l'organo cerebrale di cui sopra: mangiare per una vita della pasta scotta e insipida non avendo termini di paragone, quindi anche apprezzandola, e assaggiare, poi, un primo saporito e ben cucinato, si risolve nel non voler più il piatto insipido. È logica. Quindi vedere anche una sola serie televisiva valida, dovrebbe tradursi nella registrazione di livelli ben diversi, relativi alla costruzione, all'originalità, alla personalità dei personaggi e del prodotto in generale e di conseguenza nell'abitudine agli stessi. E invece no, questo non accade, manca del tutto la capacità critica, ma non è il caso di analizzare questo aspetto in questa sede, dato che il problema è decisamente più generale, così come le cause dello stesso.


È con i 6 episodi sopra descritti alle spalle che prende il via la seconda stagione della serie spy-action basata sui libri dell’ex-soldato delle forze speciali dell’areonautica inglese Chris Ryan. Inizialmente, al di là di una delle frasi discutibili di cui si parlava in precedenza, sembra che i creatori abbiano realizzato quali fossero i punti deboli del loro prodotto e abbiano cercato di sistemare la cosa, peraltro in maniera notevolmente e piacevolmente fulminea - "rischio" spoiler: John Porter viene brutalmente ammazzato in diretta sul grande schermo della sala di comando. Tutti sconvolti, qualche minuto dedicato al funerale e qualche altro all'uso dello stesso quale motore immobile (Aristole mi perdoni per aver usato questa sua definizione per una serie simile) della seconda stagione e Porter è storia antica. Proprio, però, quando si pensa che la serie sia tornata in grande stile, il disastro torna a posizionarsi esattamente dietro l'angolo. Le missioni assurde ricominciano, le frasi preconfezionate in offerta nei vari discount si moltiplicano e si moltiplicano pure i supereroi, che adesso sono due. Non mi dilungherò ulteriormente, ma è bene sottolineare che la fine della 2x02 è tra le più oscene di sempre.

Che la serie possa migliorare è pura utopia. Che possa peggiorare, mostrandosi capace di superare se stessa ancora una volta, è cosa più certa che probabile. E questo, volendo, è quasi un pregio.


Recensione "This Must Be The Place"

THIS MUST BE THE PLACE (2011)




Regista: Paolo Sorrentino

Attori: Sean Penn, Frances Macdormand, 
           Judd Hirsch 

Paese: Italia - Francia - Irlanda



Fuori dai confini nazionali, Sorrentino sembra perdere di vista il suo cinema, o meglio quell'aspetto del suo cinema che gli ha nel tempo permesso di girare pellicole riconoscibili e intrise di una personalità così coinvolgente da costringere occhi e cuore a non staccarsi dallo schermo per l'intera durata delle stesse. Ci si riferisce alla capacità di rendere viva la parte più intima della pellicola, di portarla in primo piano con facilità disarmante, palesando tutte quelle emozioni che lo spettatore, a quel punto, non deve far altro che far sue. “L'uomo in  più”, primo lungometraggio del regista, è in questo senso illuminante. L'empatia che viene a crearsi in maniera del tutto naturale con il Pisapia di Servillo, in sé non un personaggio così magnetico, è totale. Del resto è ciò che fa il regista napoletano, rendendo protagonista, ancor prima di storia e personaggi, l'anima degli stessi.

Dedicando uno sguardo, anche veloce, alla trama di “This Must Be The Place”, non si fatica ad immaginare quanto essa possa risultare funzionale al tipo di cinema proposto da Sorrentino. Una ex rockstar di fama mondiale, Cheyenne (Sean Penn), buffo e semi-depresso a cui viene comunicata la morte del padre, che ha impiegato 30 anni della sua vita a dare la caccia al suo carnefice ad Auschwitz, decide di portare avanti in giro per gli Stai Uniti la ricerca di tale Aloise Lange. Di materiale introspettivo ed atmosfere da restituire allo spettatore dovrebbero essercene a sufficienza.


Che dietro la macchina da presa ci sia Sorrentino risulta evidente già dalle primissime inquadrature. La sua regia e più in generale la costruzione delle sequenze è un piacere per gli occhi. Piani-sequenza lunghi e senza stacchi superflui si alternato a carrellate di cui francamente si sentiva la mancanza, così come inquadrature che stringono sui protagonisti si alternano ad altre che addirittura li oltrepassano, il tutto immerso in ambienti e colori costruiti con attenzione maniacale. È in uno scenario simile che viene presentato Cheyenne, con il suo smalto, il suo rossetto e il suo volto bianco di cipria. Un'esuberanza che stride con un'apatia, la sua, estremamente evidente. Un personaggio con una personalità ormai solo esteriore.
Una tale ricercatezza formale ed estetica rendono immediato il magnetismo di cui si parlava inizialmente, con buona pace di chi da Sorrentino si aspettava esattamente Sorrentino. Invero, già durante questa prima parte si avverte che potrebbe non esserci qualcosa oltre la forma, ma è solo l'inizio, quindi si abbandona in gran parte l'idea e ci si lascia cullare dallo spettacolo visivo, in attesa del resto, resto inteso come sostanza, chiaramente. Fino a che si giunge puntuali a quel momento: la sequenza in cui Cheyenne si siede affianco al corpo ormai freddo del padre è privo di dialoghi e frasi superflue, l'unico strumento a cui il regista affida la comunicazione è, al solito, la musica. La stessa accompagna e riempie i primi piani, restituendo quelle emozioni necessarie ad entrare, prima e a far proprio, poi ciò che si sta guardando.

È da questo momento in poi che il dubbio che poco tempo prima ci si era lasciati alle spalle, accantonandolo, con una certa dose di autoconvinzione, come impressione di poco conto, comincia ad acquistare lentamente concretezza, alimentandosi di quelle scelte cinematografiche che se non gestite senza imperfezione alcuna possono rivelarsi particolarmente deleterie: ritmi lenti, tempi dilatati e regia introspettiva. Il regista italiano non ha mai avuto difficoltà a gestire aspetti simili, li ha, al contrario, sempre cercati perché parti integranti del suo linguaggio filmico. Che non fosse in grado di farlo, dopo 4 film in questo senso perfetti, è qualcosa di eufemisticamente spiazzante, l'unica che non ci si aspetta. Fatto sta che tale difficoltà risulta in questa pellicola assai evidente. Le sequenze che si alterneranno sullo schermo per una durata peraltro non indifferente vivono di vita propria, quando ci riescono. Sì, perché se riescono a strappare sorrisi o altre emozioni di sorta, magari dovute alla ricercatezza tecnica di cui sopra, lo fanno in maniera quasi del tutto distaccata dal resto. A livello emotivo non si incastrano con le altre, non creano quella continuità ricercata e necessaria in un racconto ma, al contrario, appaiono come un insieme di scelte avulse dal contesto o, al massimo, grossolanamente “appaccicate” allo stesso. Non solo non aggiungono nulla, ma tirano fuori dal film lo spettatore che continua ad entrarvi e ad uscirvi fino ad annoiarsi. E questo è senza dubbio alcuno l'aspetto peggiore di “This Must Be The Place”.


A rendere, inoltre, per niente interessanti le scene in questione, sono personaggi di contorno incredibilmente insipidi. Dall'intermediatore finanziario, al cacciatore di nazisti, dalla moglie del carnefice alla famiglia ristretta con la quale passa un paio di giorni. Non hanno alcun fascino, alcun ruolo cruciale, non si lasciano ricordare, non si vede l'ora di andare avanti e passare al personaggio successivo, nella speranza che sia più interessante del precedente. Altrettanto insipidi e un po' troppo superficiali i dialoghi con gli stessi; in realtà neanche quelli che vedono protagonista Cheyenne, al netto di un paio di linee divertenti - “Ma che cazzo dici, Mary?” - ma anch'esse assolutamente a sé stanti, sono così sbalorditivi, tutt'altro.

A salvare in parte la pellicola, oltre all'aspetto tecnico, è uno Sean Penn enorme. Riesce nell'impresa di rendere lo smarrimento, la tristezza, il romanticismo e l'infantilismo (nel senso più puro del termine) del personaggio. Scalda il cuore con un paio di espressioni e lega a sé Cheyenne a filo doppio. Menzione particolare per l'espressione finale, così intensa da rischiare di far rivalutare tra cascate di lacrime l'intero film pur dopo essersi palesemente annoiati. La bravura di Penn non oscura, non sarebbe possibile, quella altrettanto convincente della McDormand, attrice pienamente degna di essere definita tale, qui nel ruolo della moglie di Cheyenne. Tende, per l'intera pellicola, ad apparire come una donna forte e ironica, quando però è chiamata a doversi rendere fragile e vulnerabile ci riesce con un'unica frase, regalando allo spettatore tutta l'altra metà del personaggio da lei interpretato (“Ma quando torni?”).


Probabilmente c'è proprio la Mcdormand dietro un altro aspetto caratteristico della pellicola. Quest'ultima, infatti, ricorda neanche troppo vagamente il cinema dei fratelli Coen, a causa delle situazioni e dei personaggi in parte grotteschi in cui si imbatte Cheyenne. E anche nella ricerca di un'ironia altrettanto grottesca, oltreché tipica del loro cinema. Sorrentino però non è un presunto terzo fratello dei Coen e si vede. Al di là infatti della scena in cui un uomo compare vestito da Batman, stupenda, i sorrisi strappati a chi guarda si contano abbondantemente sulle dita di una mano.

La sensazione è che Sorrentino abbia avvertito il peso della sua prima produzione internazionale e abbia puntato sulla creazione di un prodotto tecnicamente molto valido dietro cui ripararsi, scegliendo di non esporsi come generalmente espone i suoi personaggi e nascondendo quel suo modo genuino ed empatico di fare cinema, che rende lo stesso uno dei migliori in circolazione.


venerdì 14 ottobre 2011

Cominciamo...


Sembra appropriato cominciare con un post sullo strumento “serie televisiva”. O meglio, mi è utile, dato che mi permetterà subito di ricollegarmi (nel prossimo post) ad una serie specifica. Mi permetterà, più precisamente, di darle addosso. Altro aspetto positivo, infatti, dell'aprire un blog è quello di poter dar sfogo alla frustrazione causata dall'aver perso svariate ore della propria vita dietro un prodotto pessimo, dalla frustrazione causata dal fatto che quel prodotto pessimo rastrelli in realtà molti consensi e che quindi, quel prodotto pessimo, abbassi le pretese dello spettatore, settandole su livelli medio bassi e permettendo alle case produttrici e alle emittenti televisive di andare avanti col minimo sforzo. Discorso applicabile a vari altri contesti.

È bene, tuttavia, non scadere nella critica un tanto al chilo e sottolineare che fortunatamente vengono anche proposti, al contrario, prodotti particolarmente notevoli. Gli stessi che suggeriscono quali siano le reali potenzialità del linguaggio televisivo di cui si sta parlando. Basti pensare ad alcune delle serie ad oggi più riuscite e non a caso più conosciute, quali “Oz”, “I Soprano”, “Battlestar Galactica” - è vero anche che tra le più conosciute ve ne sono molte decisamente meno riuscite e viceversa, ma questo è dovuto alle storture di cui sopra - e “The Shield”. Quest'ultima è andata avanti per sette stagioni. Raccontare più personaggi per sette anni, implica un lavoro incalcolabile di analisi creativa, al fine di rendere l'evoluzione degli stessi, dello scenario e della storia di fondo credibili; al fine di incastrare nella maniera più lineare possibile personaggi e sottotrame senza che si avvertano corpi estranei all'interno della serie - vedi la puntata 14 della terza stagione di Lost, in cui compaiono i due deficienti nell'immagine in basso - e senza che venga messo a rischio l'isolamento, questa volta voluto, in cui il classico divoratore di serie televisive non può fare a meno di rifugiarsi. La sensazione cercata è la stessa provocata da un'immersione: distacco uditivo e visivo, quindi anche emozionale, dalla realtà circostante. La si ottiene già con una sola puntata, più puntate la rendono irrinunciabile.


Ciò che permette ad una serie televisiva di far proprio lo spettatore, e ciò che rende lo spettatore disponibile a farsi trascinare è, tra gli altri aspetti, il non doversi sforzare, già dopo aver visto il pilot, di entrare ogni volta in una storia, di sintonizzare le sue emozioni con quelle del protagonista, semplicemente perché quella storia, come il protagonista, già la conosce. Ogni puntata non è un partire emotivamente da zero, come accade con un film, che ogni volta deve avvicinarti prima di trascinarti, ma un ripartire, cosa che generalmente accade dopo appena qualche secondo o, come accade in molti casi, anche prima, durante la sigla – quella di “True Blood”, in questo senso, è inarrivabile. Ad onor del vero, forse non è neanche necessario cliccare il tasto “play” dato che l'attesa, è cosa nota, è in quest'ottica particolarmente funzionale. Quest'aspetto, unito alla continuità degli episodi – si sta infatti scrivendo di serie dalla trama orizzontale - risulta imprescindibile se si vuol comprendere il motivo per cui si resta anche per ore davanti allo schermo senza sforzo alcuno.


Strettamente correlato a quanto scritto è l'aspetto temporale di cui si accennava in precedenza: chi guarda sa che ha davanti a sé un percorso evolutivo esteso, che gli permetterà di vedere il capolinea al quale giungerà il singolo personaggio. È utile chiamare nuovamente in causa il paragone con il cinema. Se quest'ultimo – con le dovute, tante, eccezioni – mette in scena una storia che inizia e finisce mediamente in due ore, ma racconta comunque una parentesi temporale estesa, trasmette sì la sensazione del tempo ma non convince fino in fondo colui che si è seduto sulla poltrona appena due ore prima e che si trova ora “già” a doversi alzare ed abbandonare del tutto - tranne nel caso di sequel e prequel – i personaggi che ha imparato a conoscere in quel lasso di tempo. Una serie invece riesce dove una pellicola non può, perché appunto non solo descrive parentesi temporali estese ma copre di fatto un lasso temporale esteso. La sensazione finale è quella di aver seguito i protagonisti per una parte della loro vita assai considerevole e pertanto soddisfacente per lo spettatore.
Da considerare, inoltre, quanto l'aspetto temporale permetta da un punto di vista sceneggiaturistico. E non ci si riferisce alla mera possibilità di estendere lo sguardo su più ampie parentesi di vita dei personaggi raccontati, ma alla possibilità di concentrarsi senza troppi limiti di tempo su quei particolari che fanno un personaggio, vivisezionandolo e sviscerandone l'intimità, con tutte le sue sfaccettature, quell'intimità che lo rende comprensibile, degno di essere avvicinato e seguito, degno della propria immedesimazione, perché alla fine è a quella che lo spettatore implorante di essere portato da qualche altra parte anela. Immedesimazione. Empatia ed immedesimazione.

Le potenzialità di tale strumento, come già detto, sono enormi. Riuscire a gestire un prodotto simile, a tenerne le redini per tutta la sua durata si traduce quasi automaticamente in capolavoro. E non meramente televisivo, termine che potrebbe suonare riduttivo. Un capolavoro, punto.


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